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Joe Galullo   (a cura di Amedeo Zittano)

È una tiepida domenica pomeriggio d’ottobre; sono a Porto Recanati e, con l’entusiasmo del buon spaghettaro, riesco a combinare un appuntamento con Joe Galullo che mi raggiunge al chiosco della piazza centrale, di fronte al castello Svevo custode di uno dei palcoscenici più prestigiosi delle Marche. Anche se non l’avevo mai visto prima d'ora, lo riconosco subito e, avvicinandomi, noto che anche lui sembra non avere dubbi sul mio conto. È in compagnia del suo grande amico Marco Maria Fesce, produttore esecutivo del suo ultimo lavoro discografico. Joe è un tipo certamente “fuori dal comune”, di stampo squisitamente Blues; ha un aspetto esile e fiero e nei suoi occhi traspare una vita vissuta intensamente; ha i capelli lunghi e ben pettinati: non avevo mai visto nessuno indossare stivali tacco e punta e cravatta texana con tanta eleganza. Joe è nato nel 1950 in una Milano ancora lacerata dalle ferite prodotte dalla guerra. La vita in quegli anni non era facile per nessuno e Joe trascorse un’infanzia tanto triste (era rimasto orfano di padre) quanto difficile economicamente. Come nelle storie di blues che si rispettino, un giorno trovò casualmente una chitarra e se ne innamorò a tal punto da imparare da solo a suonarla. Dirà in seguito: “le donne mi hanno spesso lasciato invece la mia chitarra mi è sempre rimasta fedele…” Sviluppò precocemente una maturità ed una sensibilità musicale tale da renderlo un “protagonista” sin da giovanissimo. A soli tredici anni vinse un Festival Canoro di nuovi talenti; a quattordici entrò a far parte dei Moods, con i quali in pochi mesi ebbe un gran successo nei club più importanti della Lombardia. All’età di diciassette anni suonava regolarmente con Toni Dallara e con altri personaggi noti dell’epoca. Diciottenne, decise di partire dall’Italia al fine di ottenere l’esonero dal servizio militare come emigrante. Passò così molti anni all’estero, in particolare ad Amsterdam e Londra; quando tornava in Italia era solo di passaggio, una tappa come un’altra, ormai la sua casa era diventata il mondo.
Nel corso degli anni, Joe ha sviluppato uno stile personalissimo tanto da ricevere consensi da artisti tra cui Charlie Musselwhite, Buddy Guy, John Mayall ed altri e, come la stragrande maggioranza dei bluesman italiani, è divenuto più famoso all’estero che in Italia.
Aveva trentuno anni quando, per una serie di coincidenze, si stabilì per un discreto periodo a Bologna dove divenne uno dei punti di maggior riferimento bluesistico nazionale. Quando decise di ripartire da Bologna, lasciò la sua band ad Andy J Forrest (conosciuto per caso in un negozio di strumenti musicali) appena approdato in Italia (vedi intervista a Robi Zonca).
Gli anni ’80 hanno rappresentato un decennio ricco di importanti avvenimenti come l’amicizia con Ermanno Red Costa e la nascita dei Blues Messenger (dice: “considero chi suona con me un messaggero del Blues…”) con i quali ha realizzato il suo primo lavoro discografico per la Cost To Coast. All'inizio degli anni ’90, per rimanere vicino ai suoi figli (Joe ha alle spalle due matrimoni e cinque convivenze), ha deciso di “fermarsi” nelle Marche dando inizio, con i Blues Messenger, ad un’escalation di popolarità e successi.
Nel 1998 ha fondato l’etichetta Blue Melody per produrre “Melody In The Blues” seguito, nel 2004, da “The Blues Is Back!”.
Nel 2003 è stato inserito in due importanti raccolte di blues italiano, “Maxwell Street” (Blooze Peolple), compilation dedicata a Guido Toffoletti, e “Sounds Good!” (Crotalo Records).
Il suo repertorio contiene, rigorosamente, brani di propria composizione lasciando poco o nulla alle cover.
Con un buon caffé e il mio ibook pronto a registrare qualunque cosa, inizia l’intervista ad uno dei pionieri più rappresentativi dello spaghetti Blues.



Intervista

 
SB: “È il Blues a scegliere il musicista e non viceversa”... A fronte di quest’idea popolare: quando e come il Blues ti ha scelto?

JG: Ho avuto un’infanzia difficile, ero senza padre, la mia famiglia era molto povera e quando il destino volle farmi ascoltare il primo blues, fu inevitabile per me esserne rapito. Fu un motivo di Ray Charles che mi toccò davvero l’anima: in quel canto sentivo la mia tristezza. A otto anni ascoltavo già il Blues.

SB: Raccontami della tua prima chitarra…

JG: Tutto cominciò da piccolissimo nella periferia di Milano dove abitavo con mia madre. Come ti ho accennato, eravamo molto poveri e c’era molta fame; quando uscivo da scuola mi recavo nelle case diroccate dai bombardamenti per segare i componenti dei rubinetti e recuperare vari metalli come piombo e rame per poi rivenderli e portare un po’ di soldi a mia madre per comprare qualcosa da cucinare. Un giorno entrai in una di questi ruderi e, frugando in un solaio tra materassi e vecchi stracci, vidi una chitarra tutta impolverata. La presi, la spolverai, e quando pizzicai una corda la cassa armonica emise un suono che sembrava non finisse mai… Quella notte dormii con la chitarra e da allora non me ne sono più separato. Il giorno seguente andai al negozio di strumenti musicali a farmi insegnare come si accordava. Facevo cose inventate da me; erano i primi esperimenti senza una guida ben precisa. Un giorno mia madre mi chiese di buttare la spazzatura; nel bidone notai un disco in vinile, lo portai a casa e lei, entusiasta, lo ripulì e lo mise in un vecchio mangiadischi: era Guitar Boogie di Arthur Smith. Da quel giorno non feci altro che tentare di suonare quel disco imparandolo, dopo infiniti tentativi, a memoria. Nel ‘63 a S. Rocco si tenne un concorso di nuovi talenti; al primo incontro, incerti sulla possibilità di accettare la mia iscrizione data la giovane età, mi chiesero cosa sapessi fare e io gli dissi timidamente: "Artur Smith". Il tipo drizzò le orecchie e, incuriosito dalla mia risposta, mi chiese di suonare qualcosa. Fu un successo e vinsi il concorso. Subito dopo la manifestazione si presentò un cantante per chiedermi se avessi voluto suonare nel suo gruppo poiché gli mancava un chitarrista solista. Iniziammo a suonare nei locali più importanti della zona e nel ’66 dividemmo il palco con l'Equipe 84. Fui notato da Piccoli e Calcatela, gli impresari di Toni Dallara e Caterina Caselli, che mi ingaggiarono per suonare con Tony. Nel ’68 quando smisi di suonare con lui, con i soldi che riuscì a mettere da parte, mi comprai una Telecaster e me ne andai via dall’Italia per non fare il servizio militare: non mi andava di imparare come si uccide un mio simile...

SB: ... quindi con la Telecaster sulle spalle hai cominciato un viaggio lungo oltre vent'anni.

JG: Cominciai a girare in lungo ed in largo per vedere com’è fatto il mondo. Ho suonato con vari musicisti e dovunque andavo mettevo su una band e suonavo nei vari pub e festival. Poi cambiò la legge (per le esenzioni dal servizio militare bastava vivere all’estero, per motivi di lavoro, solo cinque anni anziché dieci com’era prima, ndr) e mi trovai a passare sempre più spesso dall’Italia. Un giorno dovevo andare da Milano ad Amsterdam con una ragazza ma prima dovevamo passare da Roma a salutare un amico. Ad un certo punto, alla stazione di Bologna tutti scesero dal treno. “Ma cosa succede!” esclamammo. C’era uno sciopero in corso e dovevamo aspettare quattro ore. Pensai allora che valesse la pena di visitare la famosa piazza Maggiore. Arrivati li vedemmo un gruppo di ragazzi che suonavano un brano di Neil Young; notai che il chitarrista faceva un passaggio in un accordo maggiore anziché minore. Con molta discrezione glielo feci notare e lui, entusiasta, mi ringraziò e m’invitò a suonare un pezzo insieme. Dopo avermi ascoltato mi disse di attendere, voleva assolutamente presentarmi il gestore di un locale. Il tipo mi propose di suonare la sera stessa... Non andai più né a Roma, né ad Amsterdam; mi bloccarono li e ad ogni concerto era un pienone. In quel periodo conobbi molti personaggi tra cui il batterista Max Cappa con il quale formammo la prima Joe Blues Band. Suonavamo sette sere su sette, spesso anche il pomeriggio.

SB: Come vedi il blues in Italia oggi?

JG: Ci sono musicisti in Italia che non hanno nulla da invidiare ai grandi americani. Il problema sono i mass media in quanto pubblicizzano solo i generi commerciali vendendo milioni di dischi e trascurando quelli di nicchia come il blues. Noi non abbiamo scampo! Purtroppo, anche la radio per diffondere il tuo disco vuole i “bagheroni”.

SB: Parlami di Ermanno Costa e dei Blues Messengers.

JG: Nel 1985 abbiamo fatto il primo disco con la TBM che si intitola “It’s My Life”. A quel tempo l’etichetta Coast To Coast di Ermanno e Marino Grandi era orientata verso musicisti come Cooper Terry e Arthur Miles. Fu così che, quando li conobbi, credettero da subito nel nostro progetto che ci portò ben presto a suonare in manifestazioni importanti: al Palazzo Dello Sport di Imola, assieme alla Jimmy Johnson Band, ed al Pistoia Blues con Buddy Guy e John Mayall.

SB: Nel 1998 nasce la Blue Melody. Come mai, a distanza di tredici anni dal tuo primo disco, la scelta di fondare una tua etichetta discografica?

JG: Purtroppo, come dicevo, in Italia non esistono buone opportunità per i musicisti di Blues. Quando, nel '98, la Coast To Coast smise di produrre musica, fui costretto a depositare un’etichetta alla SIAE e produrre e finanziare da solo i miei dischi per non scendere a compromessi inaccettabili con etichette non di settore. Credevo nella Band e sapevo che la strada giusta era quella.

SB: Cosa mi dici del tuo ultimo lavoro discografico?

JG: Si chiama “Have a Good Morning” (Abbi un buona giornata), che è anche il titolo della canzone che gli dà il nome. In questo brano racconto la storia di una notte indimenticabile con una ragazza ventunenne. Fu come un angelo che, di passaggio, mi lasciò un regalo da “mille e una notte”. Dormimmo assieme ed  il mattino seguente, aprendo la finestra al mio risveglio, immerso nel tepore del primo sole, lei non c’era più. Pur sapendo che non l’avrei mai più rivista, gli augurai: “Abbi una buona giornata”.

SB: Cos'è per te il Blues?

JG: Il Blues è la mia vita; con il blues la racconto così come l’ho vissuta. Il Blues è quello che guardo per strada o al telegiornale. Con il Blues condivido le esperienze con gli altri, perché il Blues trascina e coinvolge. Il Blues è magia ed ha quella cosa che nessun altro genere possiede. Il Blues è la vita che dà la vita. Con il Blues non si può bluffare.

 

DISCOGRAFIA

1986 - Joe Galullo and The Blues Messengers -‘It’s My Life’ - Coast To Coast
1990 - Joe Galullo and The Blues Messengers - 'Blues Without Fronteers' - Green Line – U.S.A
1998 - Joe Galullo -'Melody In The Blues' - BlueMelody
2003 - AA.VV. ‘Maxwell Street’ - Blooze People
2003 – AA.VV. Sounds Good! – Crotalo Records
2004 – Joe Galullo & The Blues Messengers – The Blues Is Back! – BlueMelody
2006 – Joe Galullo & The Blues Messengers – Have A Good Morning – Blue Melody

 

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