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Il Mississippi e il soffio della mia anima blues  di Fabrizio Poggi

Fa un caldo infernale ad agosto a Memphis e in Mississippi. Ci sono sempre cinquanta gradi all’ombra. Forse è per questo che li chiamano i “dog days of august”, perché in giro per le città non trovi nessuno, nemmeno un cane. Non trovi in giro neanche un’anima perché tutti sono appiccicati al
ventilatore che pende dal soffitto o al bocchettone dell’aria condizionata.  Unica salvezza e unico  refrigerio una musica  che spesso  è stata dipinta come diabolica e sulfurea: il blues. Solo un pazzo può avventurarsi in quelle lande desolate in quei giorni “dannati”, solo chi come me è innamorato pazzo del blues e della terra che lo ha generato. Non ero ancora atterrato a Memphis che già mi risuonavano nelle orecchie le parole del mio eroe ed amico Charlie Musselwhite, il leggendario armonicista. “Se ti capita di passare per il Delta, il blues ti cambierà per sempre… La musica di queste parti sembra venire fuori dalla terra dei campi e dalla polvere delle strade… E non sarai più lo stesso...” Queste le parole che il mio amico Charlie, originario del Mississippi, ha usato per descrivermi la sua terra d’origine quando qualche anno fa in occasione del mio primo viaggio, gli ho chiesto notizie sulla “terra del blues”. E aveva ragione. Quest’anno sono tornato in Mississippi con uno spirito diverso, sono tornato con la voglia di comunicare il mio modo di “sentire” il blues e non c’era altro da fare, anche se difficile ed emozionante al tempo stesso, che andarlo a suonare a Memphis e in Mississippi, là dove tutto è cominciato e dove sono nati coloro che hanno fatto del blues una musica universale: Robert Johnson, Muddy Waters, John Lee Hooker, Charlie Patton, Son House, B.B. King, Sonny Boy Williamson e tanti altri. Nulla di tutto ciò che mi è successo sarebbe stato possibile, senza l’aiuto di due indispensabili e perfetti compagni di viaggio: mia moglie Angelina (che in Texas e in Louisiana è già un mito e presto lo diventerà anche in Mississippi) e Francesco Garolfi l’eccellente cantante e chitarrista con il quale suono da qualche tempo. Certo non è stato facile per me e Francesco suonare in posti dove sentivi davvero la storia del blues uscire dalle pareti ed entrarti nella pelle facendoti vibrare come la corda di una chitarra o come l’ancia di un’armonica. E non è stato per niente “easy” cantare il blues in qualche “juke joint” sperduto tra i campi di cotone in cui c’erano solo tre macchie bianche: Francesco, l’Angelina ed io. Eppure ce l’abbiamo fatta, siamo riusciti a trasmettere il nostro modo di “sentire il blues”. Angelina si commuoveva ogni volta che una signora afroamericana di una certa età veniva ad acquistare il disco e poi ringraziava me e Francesco per averla fatta emozionare. E’ vero che ho suonato spesso negli States e ancora più spesso “sono riuscito a vendere il ghiaccio agli eschimesi”, ma questa volta c’era qualcosa di diverso, qualcosa di più. Credevo davvero che Dio mi avesse fatto un grande dono quando mi ha permesso di suonare con Jerry Jeff Walker e Willie Nelson, due eroi della mia gioventù, ma non sapevo che aveva in serbo per me emozioni ancora più grandi seppure all’apparenza semplici e spontanee. Emozioni che solo il blues riesce a darti. E alla gente che non riusciva a spiegarsi come io e Francesco riuscissimo ad interpretare il blues in maniera così “autentica e credibile”, io raccontavo che questa è la magia del blues, una musica nata dalla sofferenza di un popolo ma capace di “parlare” all’anima di persone nate e cresciute in posti anche molto lontani fra loro. Il blues è davvero un “linguaggio universale” e forse il blues è l’unico villaggio globale possibile. E mi sono davvero sentito privilegiato a suonare il blues a Memphis e in Mississippi. Sempre, quando soffio nella mia armonica un blues o una canzone popolare, sento davvero che qualcuno più grande di me mi ha dato un grande dono: quello di toccare, a volte, l’anima delle persone. Sento che mi è stato dato il privilegio e la possibilità di toccare le corde più segrete delle persone, corde che stanno nel profondo della loro anima e che vengono mostrate solo in particolari occasioni, perché appartengono a qualcosa di molto intimo; corde che vibrano solo se si riesce a stabilire un contatto fatto di emozioni semplici e sincere. Ed è con questo stato d’animo che la mattina seguente al nostro arrivo abbiamo suonato “Crossroad blues” e “Diving duck blues” in televisione alla CBS di Memphis. E non ci eravamo ancora abituati al fuso orario che la stessa sera suonavamo al Center for Southern Folklore ad un concerto organizzato dalla Blues Foundation, l’organizzazione mondiale che ha l’encomiabile obbiettivo di preservare, divulgare ed aiutare il blues e i suoi musicisti quando sono in difficoltà. Lì sono saliti a “jammare” con noi Johnny Holliday e Brad Webb, due musicisti piuttosto noti sulla scena blues di Memphis. “Restituiremo” loro il favore intervenendo il venerdì della settimana successiva ad una loro esibizione al leggendario Blues City Cafè di Beale Street, nel centro di Memphis. Certo deve essere stato emozionante per Francesco alla sua “prima volta” in America vedersi riconosciuto al ristorante con la gente che ci diceva “Hey vi ho visto stamattina in TV. Mi siete piaciuti tantissimo! Ma davvero siete italiani?” Ma le sensazioni forti non erano finite per Francesco perché il giorno seguente con Capitan Angelina alla guida di una fiammante Chevrolet ci dirigevamo verso Clarksdale, Mississippi percorrendo la leggendaria Highway 61, forse la strada più celebrata in musica. E fa sempre un certo effetto arrivare a Clarksdale passando davanti alla piantagione dove ha lavorato Muddy Waters o davanti al vecchio emporio che Charlie Musselwhite ha voluto mettere sulla copertina del suo “Delta Hardware”. Da lì sono partiti con la loro valigia di cartone tutti coloro che hanno fatto la storia del blues ed è lì che si volge quello che da molti è considerato come il blues festival più autentico d’America. Non ci sono grossi nomi al Sunflower Blues and Gospel Festival ma proprio lì sta il motivo del suo fascino: la gente lo ama perché in quei giorni il tempo sembra essersi fermato a quando il blues si suonava sotto le verande delle baracche in cui vivevano gli afroamericani. Una musica semplice per la gente semplice lontana dal clamore e dalle mille luci delle arene rock. E davvero non c’è stato quasi il tempo di seguire il festival perché il nostro calendario dei concerti era davvero fitto. Il mercoledì abbiamo suonato al Walnut Street Blues Bar di Greenville, Mississippi, la città che il grande Little Milton chiamava “casa” e e il giovedì siamo tornati a Clarksdale per intervenire musicalmente alla festa d’inaugurazione del festival che si teneva in una splendida villa coloniale (alla “Via Col vento”) di proprietà di Panny Mayfield una delle organizzatrici del Sunflower Festival. Lì quello che doveva essere un normale incontro con la stampa si è trasformato in una colossale jam session che ha visto Francesco ed il sottoscritto duettare con C.V. Veal (batterista per oltre vent’anni con Ike and Tina Turner), Wesley Jefferson e altri musicisti in una scatenata versione di “Dust my broom”. Il tutto ripreso da una troupe televisiva californiana che dedicherà all’evento una delle puntate della famosa serie “On the road to America”. Il suonare insieme scambiandosi note musicali ed emozioni sublimi è davvero una grande prerogativa dell’America e quando i musicisti parlano la stessa lingua sonora ci si sente davvero di essere parte della “stessa famiglia” e il “jammare” diventa quindi una cosa spontanea e semplice che il pubblico apprezza enormemente. La gente si è davvero divertita quando a sorpresa al Delta Amusement Cafè di Clarksdale si sono uniti a noi il grande Bill “Howl’N’Madd” Perry e quel personaggio davvero notevole che è Bob “Mississippi Spoonman” Rowell ottimo cantante e suonatore di cucchiai “blues”. Questi bravissimi uomini di blues sono solo alcuni dei tanti eroi/amici che abbiamo incontrato in Mississippi. E ci siamo davvero immersi nella storia del blues quando abbiamo incontrato di nuovo gente come Dick Waterman leggendario fotografo e “scopritore” di leggendari musicisti dimenticati come Son House, Mississippi John Hurt e Mississippi Fred McDowell o Steve LaVere l’uomo che ha dedicato una intera vita a scoprire tutte le registrazioni e le mitiche due fotografie di Robert Johnson. Steve LaVere oggi è proprietario di un edificio nel centro di Greenwood, Mississippi, non troppo distante dal luogo dove è sepolto il leggendario bluesman: il piano terra è un locale che si chiama “Blue Parrot” ed il piano di sopra è un museo dove sono custoditi cimeli che farebbero la felicità di ogni appassionato di blues. E lì c’è davvero da perderci la testa: dalle chitarre appartenute a famosissimi ed oscuri bluesmen, alle armoniche e alle lettere che scriveva alle sorelle Sonny Boy Williamson, a vecchi 78 giri che farebbero “impazzire” anche il più navigato dei collezionisti. Ho conosciuto Steve qualche anno fa quando ho donato al museo una copia del mio libro sull’armonica blues e quest’anno quando ha saputo che eravamo in giro per concerti ha voluto assolutamente che andassimo a suonare al Blue Parrot. Beh, farsi fare i complimenti da uno che di blues se ne intende e parecchio vi assicuro che avrebbe fatto vacillare anche l’uomo più freddo del mondo. Figuratevi cosa è successo a me che al cinema mi commuovo per un nonnulla. E Steve ci ha aperto gli armadi del suo museo mostrandoci cose che ancora nessuno ha visto e facendoci toccare i vecchi vinili di Robert Johnson, privilegio che come dice lui concede solo a chi conquista il suo cuore. E quanti racconti su come ha ritrovato le foto di Robert Johnson, sul caratteraccio di Harmonica Frank Floyd o sulla carriera di contrabbandiere di whiskey di Mississippi John Hurt. Steve LaVere ci ha rivelato che in verità esiste anche una terza foto di Robert Johnson. Si trova a Houston, Texas, dove viveva la sorella del mitico bluesman ma il proprietario non vuole per qualche “strano motivo” renderla nota. E pensare che tutto è partito da quella foto. Robert Johnson si trovava a Houston in visita alla sorella per salutare il nipote che partiva per il servizio militare. Per festeggiare l’evento zio e nipote, vestiti di tutto punto, andarono da un fotografo locale per farsi ritrarre insieme. Mentre erano lì la sorella propose a Robert di approfittare dell’occasione e di farsi fare una foto “professionale” con la chitarra. Così è nata una delle immagini più famose nel mondo del blues! Un discorso a parte poi, e un meritatissimo applauso vanno senz’altro tributati a Roger Stolle che attraverso il suo Cat Head, che è molto più di un semplice “spaccio” di dischi, libri e “folk art”, è diventato protagonista indiscusso di un autentico ”rinascimento” della terra del blues, della sua musica, del suo artigianato. Nel suo negozio Francesco ed io abbiamo suonato davanti a decine di avventori indecisi ed eccitati come un bimbo nel paese dei balocchi tra un disco di ruspante country-blues e l’eccellente dipinto in stile naif di uno sconosciuto pittore “blues”. Nel Delta, l’ho già scritto, ma vale la pena di ripeterlo, non c’è luogo che non sia collegato in qualche modo al mondo del blues, ai suoi miti e alle sue leggende. C’è però per me un posto e una persona che per me valgono più di tutto. Le emozioni più grandi infatti mi aspettavano anche quest’anno ad Helena, in Arkansas, che sembra un posto lontano dal Mississippi ed invece è appena al di là di un ponte sul grande fiume. In questa cittadina è nata nel 1941 la prima trasmissione dedicata al blues, la famosa “King Biscuit Time” per merito di un gruppo di musicisti destinati a fare la storia del blues: Sonny Boy Williamson II, Robert Jr. Lockwood, Pinetop Perkins e tanti altri. La radio, la mitica KFFA, è ancora viva e vegeta e anche la leggendaria trasmissione gode di ottima salute soprattutto grazie ad un grande uomo: Sonny Payne che da più di cinquant’anni tutti i giorni a mezzogiorno e un quarto trasmette il leggendario programma. L’anno precedente Sonny mi aveva invitato a suonare in diretta al King Biscuit Time. Io avevo soffiato dentro la mia armonica ma l’emozione era stata così forte che solo qualche giorno dopo ho realizzato che la mia musica era passata attraverso gli stessi microfoni dai quali nel 1941 Sonny Boy Williamson, per me il più grande armonicista di tutti i tempi, faceva ascoltare il suo blues in tutto il Mississippi e dintorni. Un amico previdente aveva scaricato in Italia la trasmissione e allora per condividere questa mia grande gioia con chi mi segue e mi apprezza ho voluto inserire una parte di quel momento nel mio cd intitolato: “The breath of soul”. Non stupitevi se quando lo andrete a trovare vedrete Sonny con un cappellino con la scritta Italia: gliel’ho spedito qualche Natale fa e lui se l’è messo il giorno che io e Francesco siamo tornati a suonare alla mitica trasmissione. E le parole che mi ha detto a proposito della passione che metto nella mia musica vorrei che un giorno venissero davvero scritte sulla mia lapide. Sono parole troppo belle perché siano dimenticate. Sono sicuro che resteranno scolpite e nascoste segretamente nel mio cuore per il resto della mia vita. Cosi come non dimenticherò mai più la cordialità della gente comune che ho incontrato suonando al mitico Ground Zero di Clarksdale o alla Hopson Plantation dove Pinetop Perkins è cresciuto raccogliendo cotone. E nonostante la stretta allo stomaco che ho provato visitando il Museo dei diritti civili a Memphis, nonostante abbia visto con le lacrime agli occhi la camera del Lorraine Motel dove è stato ucciso Martin Luther King, nonostante ci sia ancora qualcuno nel mondo a cui danno fastidio i cartelli con la scritta “I am a man – io sono un uomo”, nonostante ci sia ancora parecchia strada da percorrere per fare diventare il sogno di Martin Luther King una realtà; nonostante tutto questo io non ho perso la speranza in un mondo migliore e credo che la musica ed il blues possano fare davvero molto. L’ho imparato in Mississippi dove mi sono sentito parte della grande famiglia del blues, una famiglia dove il colore della pelle non fa la differenza, dove, almeno per una volta, l’unico colore che conta è il blues, l’unica musica che può guarire “il male di vivere”, la malinconia. Le mie avventure in Mississippi non sono passate invano sulla mia pelle e adesso finalmente forse posso dire che sono diventato migliore, sono diventato un uomo – I am a man!.

le foto, dall'alto:
- Fabrizio Poggi sulla tomba di Rice Miller, Sonny Boy Williamson II a Tutwiler, Mississippi.
- ”King Biscuit Time” KFFA Radio Station, Helena, Arkansas. Da sinistra: Sonny Payne, Fabrizio Poggi, Francesco Garolfi e Bob “Mississippi Spoonman” Rowell.
- Walnut Street Blues Bar – Greenville, Mississippi
- Fabrizio Poggi, Steve LaVere, Francesco Garolfi al Blue Parrot di Greenwood, Mississippi
- Fabrizio Poggi davanti al Delta Wholesale Hardware Co. a Clarksdale, Mississippi, l’edificio che compare sulla copertina del cd di Charlie Musselwhite “Delta Hardware”.


 

Alla scoperta del Mississippi   di Amedeo Zittano
Una storia di italiani che si intreccia con il Blues.

Gli storici identificano il luogo in cui il Blues cominciò ad assumere una struttura musicale riconoscibile nella seconda metà del XIX secolo, in un’area pianeggiante chiamata “zona del cotone” o “Cotton Belt”. Detto luogo si trova nel Delta del Mississippi (da non confondere con il delta geologico del fiume Mississippi ove sorge New Orleans), un lembo di terra a forma di “delta” appartenente allo Stato del Mississippi, tra il fiume omonimo, il suo affluente Yazoo e le attuali città di Memphis e Vicksburg.
Quello che pochi sanno è che la presenza italiana ha contribuito in maniera decisiva anche alla scoperta del fiume Mississippi, attribuita a René Robert de La Salle ed al suo grande amico Henri De Tonti. Quest'ultimo si riteneva fosse francese ma le ricerche condotte dallo studioso Pimpinella Filippo nel 1910, e le più recenti di Pietro Vitelli, dimostrano che De Tonti era nato a Gaeta intorno al 1650 ed il suo nome era Enrico Tonti. La sua famiglia si trasferì in Francia per via di un complotto contro il viceré spagnolo di Napoli (la famosa rivolta di Masaniello) in cui il padre Lorenzo, banchiere e governatore di Gaeta, era coinvolto insieme al cugino Agostino di Lietto. In Francia poterono contare sull'appoggio del Cardinale Mazarino. Nel Regno del Sole, Lorenzo Tonti ideò un sistema finanziario per il quale fu nominato Barone di Paludy. Purtroppo, il sistema finanziario fallì e Lorenzo fu imprigionato nella Bastiglia. Enrico, giovanissimo, si arruolò nella Marina Francese. Fece una gloriosa carriera distinguendosi per le sue doti militari e per l’estremo coraggio, tanto da essere promosso sul campo, durante le operazioni militari in Sicilia, al grado di Capitano in Seconda per aver difeso il porto di Messina. In quell’occasione perse la mano destra (da cui il soprannome “mano di ferro” o “braccio di ferro”, poichè si fece montare una protesi in metallo) e fu fatto prigioniero per sei mesi a Milazzo. In seguito a rocamboleschi episodi, degni dei più avventurosi romanzi, riuscì a tornare in Francia dove chiese di partecipare all’espansione delle colonie della Nuova Francia. Partì per il Quebec dove fu affiancato al Cavaliere De La Salle con il quale strinse una profonda amicizia. Insieme esplorarono per la prima volta il Niagara, i Grandi Laghi e molti altri territori. Furono considerati i padri fondatori dell'Arkansas, dell'Alabama e dell'Illinois dove sorge una città con il suo nome, Tonti Town. Enrico divenne ben presto famoso tra le tribù indiane che, per via della sua protesi, gli attribuivano poteri magici, soprattutto tra le tribù bellicose degli Irochesi alleate agli anglosassoni. L’esplorazione più importante però fu la discesa, nel 1682, del fiume Mississippi fino alla sua foce nel Golfo del Messico durante la quale colonizzò le terre circostanti, compreso il Delta del Mississippi. Quattro anni dopo ottenne la Signoria dell’Arkansas ed organizzò una cittadina, Arkansas Post, insieme al fratello Alfonso Tonti ed al cugino Pierre-Charles De Lietto, che si occupavano degli aspetti commerciali con i nativi Illinois. La costruzione di nuovi quartieri diede vita ad una colonia che avrebbe dovuto ospitare le famiglie dell'esercito composto da soldati francesi, italiani e fiamminghi. Questo evento rappresentò la prima emigrazione di Italiani nel Nuovo Mondo, proprio in una delle colonie più fiorenti, basata sull’agricoltura, tanto che Arkansas Post divenne la Capitale dello Stato. Nel 1689 Enrico venne a sapere della notizia che La Salle, partito dalla Francia cinque anni prima con la missione di costruire un nuovo porto sulla foce del Mississippi, era probabilmente morto. Partì subito per una spedizione di ricerca senza sapere che l’amico era morto, in realtà, due anni prima.
Alfonso De Tonti, assieme al Governatore Cadillac, fondò nel 1701 una strategica fortezza che chiamò Detroit. La dinastia delle famiglie De Tonti e Di Lietto resero onore ai propri avi per generazioni, non solo per aver fortemente contribuito ad un secolo di grande espansione della Nuova Francia ma soprattutto per aver dimostrato un rispetto esemplare nei confronti delle popolazioni indigene stringendo legami di grande amicizia (Enrico sposò nel 1700 una nativa dell'Illinois) e per aver compreso pienamente la loro cultura, dimostrando così che non necessariamente l’incontro tra due culture così diverse debba finire con l’annientamento di quella più debole.
La storia di quei luoghi è particolarmente ricca di riferimenti incrociati tra loro: gli afroamericani, gli italiani ed il Delta del Mississippi.
Dopo la terribile guerra di Secessione che vide scontrarsi milioni di soldati e volontari, il Sud fu dilaniato dalla fame. Questa tragedia generò una massiccia immigrazione verso Kansas City, St. Louis e Chicago da parte degli “ex schiavi” che dovettero però adattarsi alla vita metropolitana densa dei disagi dovuti ai pregiudizi razziali ed al sovrappopolamento. La restaurazione non si fece attendere e nel giro di pochi mesi gli imprenditori diedero inizio a grandi opere in quelle immense aree agricole. Nel 1880 i primi italiani nel Delta furono impiegati a lavorare sulle rive di Friars Point, nella contea di Coahoma; nel 1887 il banchiere newyorkese Austin Corbin, prelevò la Sunny Side Company con l’obbiettivo di recuperare 10.000 acri di piantagioni di cotone tra il lago Chicot e il fiume Mississippi. Corbin, già proprietario della ferrovia di Long Island, fece costruire una nuova linea dedicata al trasporto dai magazzini fino all’attracco delle navi per Greenville, il più importante centro commerciale del cotone. La richiesta di manodopera cresceva con l’aumentare delle aree agricole ripristinate. Corbin contattò quindi l’Ambasciatore italiano a Washington Saverio Fava e il Capo dell’Ufficio Del Lavoro Alessandro Oldrini proponendo loro di far immigrare nel Delta quante più famiglie italiane possibili. Fu coinvolto anche il Sindaco di Roma Emanuele Ruspoli che doveva provvedere a far partire cento famiglie all’anno per cinque anni. Il 29 novembre del 1895 la Motonave Chateau Yquem sbarcò a New Orleans 98 famiglie composte da 562 persone, la maggior parte delle quali provenivano dalle proprietà terriere di Senigaglia del Sindaco Ruspoli. Queste famiglie furono spinte, con il miraggio del "sogno americano", a vendere tutti i loro averi per pagarsi il viaggio. A chi non aveva disponibilità economica, i proprietari terrieri anticipavano le spese. Nel giro di pochi anni centinaia di famiglie italiane accettarono di lavorare in tutto il Delta indebitandosi con le Compagnie che operavano ormai una sorta di racket legalizzato, lucrando anche sulle spese più impensabili come l’ingaggio della manodopera afroamericana, il mantenimento dei muli, le spese di imballaggio e trasporto del raccolto, nonché sul prezzo dei semi del cotone. I debiti degli italiani aumentavano e con il passare del tempo la morsa si fece sempre più stretta rendendoli praticamente schiavi delle Compagnie e della Legge americana che, ignorando il 14° emendamento della Costituzione, applicava agli italiani lo stesso trattamento riservato ai neri. Chi tentava la fuga veniva accusato di reato Federale di "peonage", ovvero una sorta di larvata schiavitù. Non erano rari gli episodi di linciaggio (legge di Lynch), famoso quello di New Orleans nel 1891 nel quale furono uccisi undici italiani. Le denunce alle Ambasciate italiane aumentavano in modo esponenziale; persino il nuovo Ambasciatore Edmondo Mayor Des Planches avendo constatato la realtà durante un viaggio nel Sud degli States, denunciò al Governo americano il fenomeno del peonage e le cattive condizioni di vita degli italiani nelle piantagioni del Sud. Nel 1907, il procuratore generale Mary Grace Quackenbos aprì la prima inchiesta.
L’integrazione italiana cominciò ad essere concretamente accettata solo dopo la Seconda Guerra Mondiale, grazie ai tantissimi italiani che si arruolarono nell’esercito degli Stati Uniti d’America, un po’ come era accaduto ai neri durante la guerra di Secessione, quasi un secolo prima.


Murales Blues
 
Il Blues, come sappiamo, non è solo musica; il Blues è soprattutto pensiero, quindi cultura. A tutti i musicisti italiani che abbiamo intervistato abbiamo fatto la stessa domanda: “che cosa è il Blues per te?”… A dire il vero, la domanda può apparire un po’ sciocca, sicuramente banale, ma è stato molto interessante scoprire come una domanda “provocatoria” abbia generato risposte sempre diverse tra loro. Per qualcuno il Blues è un atteggiamento mentale, per qualcun’altro è una donna che non rivedrà più, per qualcun altro ancora è un  urlo dell’anima, il sacrificio, il rispetto, la cultura… insomma, il Blues è tutto questo intreccio e molto altro ancora. Molti artisti, oltre che essere blues in senso musicale, lo sono anche in senso letterario, fotografico, cinematografico e artistico in generale. Navigando nel web capita persino di vedere l’arte dei murales legata al blues. Ci siamo chiesti se anche in Italia si esprima questa bellissima forma di arte. Da qui la decisione di lanciare un appello a tutti coloro che hanno visto e fotografato un murales blues.
A tal proposito ci piacerebbe se inviaste delle foto con il luogo, l’oggetto e, se possibile, l’autore del murale, noi saremo lieti di pubblicarle.
Nel frattempo vi offriamo un piccolo assaggio dei murales realizzati oltreoceano nei luoghi più significativi del Blues americano:
 


In onore del grande Jimmy Reed che è nato a Dunleith, ad est di Leland. Realizzato da Cristen Craven Barnard e Jay Kirgis nel 2001. Questo murale si trova sul muro del Stovall's on the Creek

 
Questo murale è realizzato accanto ad una porta sul retro di un negozio alimentare. Raffigura W.C. Handy durante il suo primo incontro con un bluesman nella stazione ferroviaria di Tutweiler, Mississippi, nel 1903.
     

Realizzato dalla Blues and R&B Music Foundation di San Francisco, sul muro della Palestra Sport Hamilton, rappresenta l'unità e gli sforzi tutti di coloro che hanno lavorato duro donando alle generazioni future un grande bagaglio culturale.
 
Raffigurazione della vita di Sonny Boy Williamson II, che riposa in pace in un cimitero abbandonato alla periferia
di Tutweiler, Mississippi.
     


B.B. King, Indianola, Mississippi

 
Murale raffigurante Robert Lockwood realizzato da Tony Davenport. Sito nell’Official Robert Johnson Blues Museum.
     


Helena, Arkansas:"Sonny Boy Blues Society" nella Cherry Street

 
Brownsville, Tennessee: Sleepy John Estes,
Hammie Nixon e Yank Rachell.

 

Robert Johnson - I Got The Blues, Testi Commentati  Luigi Monge, Arcana 2008  di Amedeo Zittano

Di libri su Johnson ne sono stati scritti a iosa ed è per questo che una domanda nasce spontanea: “perché mai dovrei acquistarne un altro ancora?” La risposta sta nel fatto che Luigi va ben oltre quello che ormai è diventato luogo di pensiero comune dello stereotipo del bluesman anni ’30 che Johnson rappresenta. Intorno al personaggio è stato cucito di tutto, dal mistico al surreale, forse perché l’animo umano è per natura attratto dal paranormale, più probabilmente perché le case discografiche hanno sfruttato il mito a scopo di lucro nel riproporre le sue opere negli anni ’60 della blues revue (quando, dopo oltre vent’anni di quasi anonimato, furono ristampati i brani di Johnson). In ogni caso, quasi mai è stata fatta un’analisi oggettiva dell’uomo Robert Johnson. Questa scelta potrebbe far “storcere il naso” a qualcuno deludendo inevitabilmente chi si aspetta le stazionarie, obsolete, ma pur sempre affascinanti conclusioni “sataniche”. In fondo tutti dovremmo sapere che l’incrocio (il celebre crossroads) di Johnson e della cultura afroamericana che egli rappresenta, simboleggia in verità una croce, ovvero una scelta o decisione. Non necessariamente la condizione di Papa Legba “demone” con cui stringere un patto ha attinenza con il satanico. Più verosimilmente, riferimenti metaforici del genere rappresentano una scelta di vita pattuita con se stessi. Una scelta decisamente "coraggiosa" quella di Luigi Monge “il revisionista”, il contrapporre alle aspettative commerciali una precisa strategia culturale rispettosa della verità, per l’appunto: “I Got The Blues”.
Dopo un’attenta lettura ho potuto apprezzare una serie di aspetti innovativi rispetto a tutto quello che ho letto da molti anni a questa parte. La forma con cui vengono esposti i contenuti è tutt’altro che “arzigogolata” (al contrario di molti vanagloriosi studiosi dei analogo spessore), rendendo il testo comprensibile davvero a tutti. Attenta è l'analisi che, pur proponendo conclusioni opinabili, non dà nulla per scontato. Interessantissimi, in particolare, i riferimenti storici. Ma l’aspetto più interessante è l’interpretazione del testo e del contesto lirico che Luigi traduce e commenta: un invito alla riflessione basata sulla ricerca delle vere intenzioni dialettiche e dei significati nascosti che Robert dona con le sue canzoni. A garanzia di ciò, c'è l’indiscussa competenza internazionale dell’autore in fatto di linguaggio americano, soprattutto di quello legato alla società nera del Delta dei primi del ‘900, il “black american” e il suo “double talk”.
Luigi è laureato in Lingue e Letterature Straniere Moderne presso l'Università di Genova con una tesi intitolata "La lingua inglese dei Neri d'America e il Blues: analisi critica di alcuni testi"; è insegnante e traduttore, membro dell'Associazione Italiana Traduttori e Interpreti dal 1993; socio fondatore dell'Associazione Culturale Liguria Blues Genova; ha scritto per le riviste più autorevoli di cultura blues italiane ed estere, tra cui il “Black Music Research Journal”, la University of Illinois Press, la Routledge di New York e “Il Blues” di Marino Grandi.
Questo libro è un ottimo supporto culturale anche per tutti coloro che coltivano la passione del Blues come musicisti, in particolare per quelli legati al canto. A mio parere ogni cantante di blues dovrebbe leggere e comprendere quest’opera che magistralmente restituisce significato alle liriche di Johnson e del Country Blues più in generale; d'altronde si sa che le lacune culturali sono spesso la causa principale di un’esecuzione musicale maccheronica ed empatica.
Tempo fa ho letto da qualche parte che Johnson è stato ucciso due volte: nel ’38 quando fu avvelenato e dopo il ’61 quando fu interpretato…
Il libro è in vendita anche sul web: basta cercare il titolo e l’autore ed una serie di webmarket (compreso ebay) evidenzieranno il prodotto.
Un ultimo suggerimento: durante la lettura ascoltate in sottofondo i brani di Johnson.
“Ho un uccello per cantare e un uccello per fischiare e tu, amico, non pescare nel mio stagno”. (R.J.)
 
 

I Will, Chicago   di Amedeo Zittano

Chicagoland è distesa su un’area pianeggiante estesa per più di 50 Km lungo la costa sud occidentale del lago Michigan a circa la stessa latitudine di Roma. E’ capoluogo della Contea di Cook e rappresenta la terza città degli Stati Uniti d’America; è la più grande città del Midwest; ha il più trafficato nodo ferroviario al mondo; la Camera di Commercio tratta il 90% dei contratti di grano e cereali della nazione; i Mercati Generali sono i primi degli Stati Uniti per i prodotti agricoli; vanta il grattacielo più alto d'America, la Sears Tower (fino a pochi anni fa il più alto al mondo); ha l’edificio più grande al mondo, il Merchandise Mart; è la città con il maggior numero di ponti mobili al mondo; ha l’aereoporto più congestionato al mondo; è la città più produttiva di acciaio d’oltreoceano; è la prima al mondo nelle vendite per corrispondenza (Postal Market); è la più giovane degli States; vanta la squadra NBA più forte, i “Chicago Bulls”; è l’unico dei 38 Stati su 52, a rispettare la Moratoria ONU delle esecuzioni del 2000; è sede di “Play Boy”; è gemellata dal 1973 con Milano; è la più ambiziosa; la più audace; la più vanagloriosa; la più americana; la più Blues!
L’etimologia della parola Chicago trova origine nel linguaggio dei nativi americani che si insediarono in quei luoghi circa 10.000 anni orsono, nel periodo della colonizzazione della Louisiana Francese da parte di La Salle (vedi articolo “Alla scoperta del Mississippi”). In quei territori vivevano prevalentemente pellerossa Potawatomi (ma anche Miami e Illinois) che chiamavano il fiume “Shikaakwa” da cui la città che sorse alla sua foce prese il nome. La parola ha fondamentalmente due interpretazioni: la prima, quella più accreditata, si riferisce alla caratteristica vegetale del paludoso luogo infestato da una specie di porri selvatici che i nativi chiamavano appunto “Shikaakwa”; la seconda, invece, attribuisce alla parola il significato di “potente”, con riferimento alle tribù che ci abitavano.
Chicago è stata conosciuta nel corso della sua storia con vari soprannomi a causa dell’insopportabile odore delle paludi circostanti e dei porri selvatici; uno di questi era infatti “puzzolente”. Il nomignolo più famoso è "Windy City" (città ventosa o bombast) poichè gli alti grattacieli creano fenomeni di forti turbolenze aeree lungo le strade sottostanti deviando il gelido vento Canadese verso il basso. Questo termine in realtà non è altro che un doppio senso puramente satirico. Bisogna premettere che il termine “Windy” (in senso dispregiativo) fu utilizzato per la prima volta nel 1858 in un articolo che si riferiva però a Green Bay, Wisconsin. A parer di cronaca, gli abitanti si vantavano così tanto da produrre vento con la bocca, come dire “palloni gonfiati”. L'appellativo Windy City riferito a Chicago è un conio della rivale Cincinnati, Ohio. Furono principalmente loro a far si che, in seguito, il nomignolo Windy fosse attribuito ai chicagoans, fossero essi cittadini, politici, artisti o atleti. Il termine si diffuse così tanto che nel 1890 il New York Sun di Charles A. Dana pubblicò un articolo in cui si dichiarava che la "Windy City", una città di frontiera, non poteva ospitare il “World's Fair” (esposizione mondiale colombiana) conteso anche dalla città di New York, pur avendola sconfitta con ben otto scrutini. Alla base della vittoria di Chicago, però, fecero leva le eloquenti promesse dei politici, definiti "talkative" (chiacchieroni) o "boast full", quindi “Windy”. Per tutta risposta i chicagoans trasformarono “Windy" in “Fight” (lotta).
Altri appellativi furono: "Porkopolis", “White City”; The Hawk; “Second City” (perché in passato era la seconda città più grande degli States dopo New York); “City of Big Shoulders”; "Dat Killa Chi" (usato dai gangster ai quali purtroppo erano associati anche gli italiani); "The Chill” o “Chi Ill"; "The Big Onion" (la grande cipolla); “Chi-Town” o “Chitown”; "Hog Butcher For The World”; “Tool Maker”; “Stacker Of Wheat”; “Stormy”; “Husky”; “Brawling”; "Shot-Town"; "Heart of America"; “The Alley” e, dulcis in fundo, "Sweet Home" in riferimento alla celeberrima canzone di Robert Johnson del 1937.
L’insediamento urbano di Chicago nacque intorno al centro commerciale di Jean Baptiste Pointe Du Sable (personaggio di colore riconosciuto nel 1986 “il padre di Chicago” perchè fu il primo non nativo a costruire un edificio stabile alla foce del fiume Chicago) ed era nota con il nome di Fort Dearborn, costruito nel 1803 a difesa dello strategico territorio. Il 12 agosto del 1833 fu dichiarata la municipalità della città di Chicago. Essa contava, in un’area di 1 Km², circa 350 abitanti (oggi ne conta quasi 3 milioni nel Comune e quasi 10 milioni nella Chicagoland) e la sua crescita era esponenziale.
Nel 1871 la città fu completamente distrutta dal Grande Incendio. Per ironia della sorte, o per vendetta della natura, quella che rappresentava la macelleria degli States, dove “le mucche andavano a morire”, fu incendiata proprio per via di una mucca che scalciò una lanterna a petrolio incautamente dimenticata nella stalla delle sorelle O'Leary; il vento, poi, fece il resto (questa versione però fu in seguito smentita). Fu dalle ceneri di quell’incendio che nacque la Second City che da subito volle stupire il mondo… Non volendo più costruire edifici in legno, si pensò di utilizzare l’acciaio grazie al quale si riuscì a sfruttare l’altezza arrivando a realizzare il primo grattacielo della storia, l'Home Insurance Building (demolito nel 1931). Furono riprogettate le strade diritte e perpendicolari tra loro (infatti le poche strade diagonali sono quelle dei vecchi sentieri indiani); nacque la Dowtown (il centro città); furono costruiti innumerevoli parchi lungo le sponde del lago e cominciò a prendere forma il Magnifico Miglio. Da questa forte rinascita economica, sociale ed industriale, ci fu spazio anche per un primato ecologico (oltre che di viabilità commerciale). Per combattere l’inquinamento fu addirittura invertito il corso del fiume Chicago grazie alla costruzione di un canale che lo collegò al fiume Illinois.
La Guerra di Secessione fece aumentare l’offerta di risorse e per Chicago fu un vero boom. Ne seguirono l’utilizzo del ghiaccio nei mattatoi (che permetteva di non sospendere le attività nei mesi estivi), l’inscatolamento della carne e la catena di montaggio. Chicago rappresentò il primo esempio di Industria Globale che durò fino agli anni ’70 dopo i quali, a seguito di una crisi industriale, anziché crollare su se stessa, trovò una via di scampo inventando l’Economia dei Servizi, anticipando successivamente l’applicazione e lo sviluppo dell’informatica.
Per quanto riguarda l’influenza italiana basti pensare che, intorno al 1920, Chicago ospitava la popolazione italiana più numerosa (insieme a quella nera). Purtroppo la presenza italiana diventò popolare per i gravi problemi che la mafia arrecò alla cittadinanza, causando un’ondata xenofoba che generò misure straordinarie di anti-immigrazione italiana. I pochi fortunati che riuscirono a realizzare una qualche modesta attività furono subito aggrediti dalle organizzazioni xenofobe. Gli italiani erano esclusi da tutto, anche dai sindacati. Ne costituirono di propri come la “Società degli Stuccatori e Decoratori Italiani” o associazioni come “Donne Piemontesi”. Questa situazione aumentò la necessità di raggrupparsi per difendersi, così sorsero borgate dette “Little Italy” o più specifiche come “Little Sicily”, nota anche come “Little Hell”. In contrapposizione a queste tendenze le varie parrocchie come quelle delle chiese di S. Angelo, della Madonna di Pompei o Dell’Addolorata, cercarono di contrastare i fenomeni malavitosi creando aggregazione in società mutualistiche e di volontariato. L’opinione pubblica però non ha mai fatto distinzioni tra buoni e cattivi. Little Italy diventò terreno fertile per le varie forme di mafia e camorra che resero la città un vero inferno caratterizzato da episodi sanguinari come la tristemente famosa strage di S. Valentino. Little Italy, per via di nuovi progetti di urbanizzazione, venne rasa al suolo. A differenza delle Little Italy di tutto il mondo che si distinguono per lo stile palesemente italiano, colorato e allegro, mella nuova Little Italy di Chicago non è visibile alcunché di italiano. Chi c’è stato lo descrive come un posto piuttosto povero e decadente. Inoltre, a contribuire alla “brava” reputazione degli italiani, il cinema ha ripetutamente narrato ed enfatizzato (a mio parere in modo eccessivo) personaggi come l’italo-napoletano Scarface, alias Alfonzo Capone, o «Big Jim» Colosimo, creando uno stereotipo fortemente negativo. A noi piace ricordare personaggi più illustri come “The italian navigator”, Enrico Fermi, che dopo aver ricevuto il premio Nobel nel 1938 da re Gustavo V a Stoccolma, a causa delle leggi razziali (la moglie Laura Capon era ebrea), dovette partire con la famiglia per gli Stati Uniti ed a Chicago visse gli ultimi quindici anni della sua incredibile vita.
Nei primi anni del XX secolo accadde quello che fu definito il fenomeno che ha dato vita alla nascita del Chicago Blues: la massiccia immigrazione (come accade qualche decennio prima a causa della Guerra di Secessione), di neri dagli Stati del Sud, in particolare dal Mississippi, che si trasferirono a Chicago alla ricerca di una vita migliore. Fu così che il Country Blues conobbe la grande metropoli, la Dowtown stretta nel suo Loop (una linea ferroviaria sopraelevata della metrò leggera che la circonda, intesa come “il Cappio”). Prese forma uno stile musicale caratterizzato principalmente dall’elettrificazione degli strumenti e da una lirica metropolitana. Il Blues era la musica dei “festini” (Rent Party) dove l’alienamento sociale dei neri trovava sfogo in una sorta di Juke Joint di città. Nacquero grandi talenti che segnarono con i loro stili un percorso indelebile nella storia del Blues: Muddy Waters, Buddy Guy, Howlin' Wolf, Big Bill Broonzy, Sunnyland Slim, Jimmy Yancey, Meade "Lux" Lewis, Albert Ammons, Blind John Davis, Otis Spann, Sonny Boy Williamson I, Sonny Boy Williamson II e Little Walter, solo per citarne alcuni.
Insomma, chiunque ami il blues vorrebbe visitare Chicago almeno una volta nella vita e, se già lo ha fatto, vorrebbe tornarci ad ogni costo.
Bisogna dire che musicalmente Chicago non è fatta solo di Blues, anzi! Dagli anni ’50 (a parte una “timida” revue dei ’60 e l’avventura cinematografica Blues Brothers, divenuta la mania degli ‘80) il Blues di Chicago conta più o meno sugli stessi personaggi che con il passare del tempo, e per volere del Grande Spirito, saranno destinati a lasciarci. Per i conservatori della cultura blues, il vero Blues è quello che “va dagli anni ’20 ai ’40, massimo ai ‘50”. La verità, certo, non si trova mai negli estremi, tuttavia bisogna ammettere che attualmente la progressista Chicago vanta molte altre cose oltre il Blues. La città è un importantissimo centro di riferimento Jazzistico ed è stata la culla della House Music (prima forma musicale dalla quale nascono tutte le forme di musica elettronica contemporanea). Ovviamente essendo per definizione la patria del Blues Elettrico, essa offre una infinità di luoghi culturali anche se è un peccato che, per volontà del progresso ed a causa della ruffiana indifferenza nei confronti della speculazione edilizia, alcuni dei luoghi cult non esistano più. A nulla sono valsi gli scioperi della fame di Jimmie Lee Robinson (scomparso nel 2002) per protestare contro la chiusura (avvenuta nel 1994) del grande mercato ebraico di Maxwell Street (ghetto del West Side immortalato nell’album del 1964 “Live On Maxwell Street” di Robert Nighthawk).
Si potrebbe tranquillamente affermare che la Sweet Home è una sorta di Città Museo del Blues. Questo aspetto lega strettamente il fenomeno culturale al fenomeno commerciale del turismo e quindi troppo spesso il Blues diventa strumento di intrattenimento folkloristico per i visitatori di tutto il mondo che affollano la metropoli. Tutto è associato al Blues, dai nomi dei ponti alle grafiche delle bustine di zucchero; per le strade, nei negozi e anche nei più piccoli bar di periferia, il Blues viene eseguito in modo sterilizzato e logorroico. La fama, si sa, è una lama a doppio taglio e, se i benefici commerciali superano di gran lunga quelli culturali, il rischio di atrofizzare il Blues di Chicago è davvero preoccupante. In ogni modo, Chicago è una città da visitare nella maniera più assoluta anche perché a mantenere alta la dignità del Chicago Blues ci pensano i più famosi club come il Lee’s Unleaded Blues, (ex The Queen Bee), il Buddy Guy Legend's, il Blue Chicago, il B.L.U.E.S., il Kingstone Mines, etc. Tra questi ce n’è uno gestito da Italiani: il Rosa’s Lounge di Tony Mangiullo e mamma Rosa.
La storia del Rosa’s ha il dolce sapore di una fiaba d’altri tempi e comincia nel 1978 quando Tony (di Rho-Milano), batterista dei Mean Mistreater, e Giancarlo Crea accompagnavano per i loro tour italiani bluesman del calibro di Homesick James, Buddy Guy e Junior Wells. Di li a poco Tony decise di trasferirsi a Chicago spronato anche dall’incontro dei sopracitati bluesman e dal fatto che Giancarlo conosceva già la città. Mamma Rosa, che mai avrebbe potuto accettare la lontananza del figlio, decise di seguirlo. Vendette la casa, la bottega ortofrutticola e lo raggiunse. Li si innamorò di Homesick James e lo sposò. Ma Tony svolgeva una vita notturna troppo preoccupante per lei; i giornali erano sempre più infarciti di articoli che descrivevano numerosi incidenti stradali durante le notti brave di Chicago. Per un periodo Tony, per non dare preoccupazioni alla madre, percorreva numerosi chilometri a piedi pur di raggiungere i locali in cui suonava, ma non bastò. Mamma Rosa sapeva benissimo che camminare di notte tra i quartieri di Chicago poteva essere anche più pericoloso che percorrerla in auto, così decise di rischiare il tutto per tutto investendo tutti i suoi risparmi in una casa nel West Side per trasformarla in un locale… Dopo sei anni dal loro trasferimento negli States, al 3420 W. Armitage Ave., naque il “Rosa’s Lounge, live blues 7 nites”, uno dei pochi locali che si distingue ancor oggi per volontà di tenere vivo il Blues a Chicago.

P.S.
“I Will” è il motto ufficiale di Chicago e vuol dire “Ce La Farò”…

 

Phil Guy, Addio blues brother  di Dario Lombardo

Nasce a Lettworth, Louisiana, il 28 aprile del 1940, quinto di 5 fratelli (Annie Mae, Fannie Mae, George, Sam & Phil). Il padre, Sam senior, suona la chitarra e possiede dei dischi. E' un contadino che lavora a mezzadria un pezzo di terra ed i figli lo aiutano.
George inizia a suonare e dopo poco anche Phil lo segue in questa direzione (nel recente cofanetto CD di Buddy ci sono alcune registrazioni dei due Blues Brothers degli anni '50).
Nel '58 George va a Chicago e Phil resta in Louisiana. In poco tempo suona con Raful Neal, Slim Harpo, Lazy Lester. Durante gli anni '60 ha un lavoro regolare cui affianca il ruolo di session man nei locali della zona. In questo modo suona con molti musicisti di passaggio, tra cui Otis Redding.
Phil è un musicista fin dall' inizio legato alla tradizione ma aperto ai nuovi suoni e stili dei '60's: sarà questa una costante della sua musica, che lo porterà ad inserire nei suoi spettacoli brani o sapori funk, rhythm'n'blues, rap, oppure ad essere tra i primi chitarristi blues ad usare effetti con lo strumento.
Nel '69 la svolta: Buddy Guy resta senza chitarrista alla vigilia di un importante tour in Africa con Junior Wells, e propone al fratello di unirsi alla band. Detto e fatto, questo è il momento che cambia la vita di Phil. Lascia lavoro e famiglia e si trasferisce a Chicago, dove resterà a vivere al ritorno dall'Africa. E' la Chicago del 1969, quella del Blues sì, ma piena del Funk che esplode come musica e come cultura, moda, stile di vita. E' il momento del Black Power, la Soul Music sta cambiando abito. Basta vedere le foto dell' epoca per capire quanto tutto questo entri di prepotenza nella vita di Phil Guy. Ed infatti, è proprio un segno fondamentale di quel periodo, The Wig, la parruccona Afro simbolo di affermazione e libertà che Phil non lascerà più e che continuerà orgogliosamente ad indossare fino alla fine. Musicalmente, a Chicago nel '69 ci sono ancora Jimmy Reed, Eddie Taylor, gli Aces, insomma quasi tutta la generazione che ha fatto il sound storico della città, e ci sono i locali (quei clubs storici che ormai sono tutti chiusi), primo fra tutti quel Theresa' s che sarà la “tana” di Junior Wells, come è ben testimoniato dal recente Live della Delmark, che vede proprio Phil alla chitarra. Ed esce allo scoperto in quel momento la nuova generazione, quella dei Lonnie Brooks, Mighty Joe Young, e si afferma definitivamente il successo di Otis Rush, Magic Sam, Buddy Guy & Junior Wells. Blues, Soul, Rock, si miscelano creando un nuovo suono che estenderà ovunque i confini della popolarità di questi generi. Phil è in mezzo a questo fiume: suonando col fratello e con Junior Wells per dieci anni, fino al '79 sarà esattamente nel cuore di tutto questo. Dopo il tour in Africa sarà la volta del Rock' n' Roll Train, quel breve tour in cui una serie di gruppi furono portati dagli Stati Uniti al Canada per via ferroviaria: viaggiavano notte e giorno, poi alla sera suonavano dove si erano fermati. I gruppi? Buddy Guy, Janis Joplin, Grateful Dead, ecc. (Phil diceva che c'erano anche i Jefferson Airplane ed i Mountain, ma nel film, uscito da pochi anni, non ci sono). Nel 1970 c'è il tour europeo con gli Stones nel corso del quale, il 29 settembre ed il 1° ottobre, Phil suona per la prima volta in Italia, al Palasport di Roma. (Byll Wyman, “Rolling With The Stones”).
Gli anni '70 scorrono così, con i primi brani di Phil che escono “in coda” ai dischi su JSP del fratello, ed il cuore della Chicago Blues si è spostato al Checkerboard Lounge.
Nel ' 79 Phil decide di lasciare la band del fratello e fonda la Chicago Machine, il gruppo con cui si esibirà fino al 2008. Nella band, fin dall' inizio, si avvicendano molti giovani futuri talenti, come Ray Allison, Maurice John Vaughn, J.W. Williams. Il tastierista Eddie Lusk è l'anima del gruppo. Sono di quegli anni le collaborazioni con Jimmy Dawkins ed A.C. Reed, purtroppo solo parzialmente testimoniate su disco, e poi finalmente i primi dischi a nome di Phil, che escono sempre per la britannica JSP.
Anche se Phil registrerà per altre etichette (o se altre etichette pubblicheranno senza autorizzazione suoi dischi...), sarà proprio la JSP l'etichetta cardine della sua discografia, cui bisognerà aggiungere, dal 1989 in poi, i lavori con gruppi non americani che chiaramente hanno inciso per etichette locali.
Phil Guy è sempre stata una persona di ampie vedute e di mentalità aperta, alla costante ricerca di progressi e cambiamenti: fin dall'inizio la sua band è stata una specie di palestra in cui i musicisti si sono alternati per poi passare ad altre esperienze senza scordare, nella maggior parte dei casi, il proprio punto di partenza. Questa sua apertura mentale si è dimostrata ancor di più nella disponibilità ad esibirsi con gruppi non americani. Cominciò con gli inglesi nei primi anni '80 e poi nell' 87 fu la nostra volta: Model T Boogie il nome della band, ricordate? E se possibile erano collaborazioni destinate a durare nel tempo. Se decisamente la più duratura è stata quella con me, non bisogna scordare altre importanti parti di questa avventura (due principalmente), cioè quella Argentina (con il batterista Adrian Flores e l'armonicista Alex Rossi), e quella Finlandese (con la Wentus Blues Band e Pepe Ahlqvist).
Queste collaborazioni hanno portato, oltre che ad una lunga serie di concerti, a cinque dischi che a pieno diritto possono essere inseriti nella discografia di Phil: Model T Boogie, 1989; Adrian Flores y Blues Especial, 1997; Blues Gang, 1999; Wentus Blues Band, 2002; Alex Rossi, 2006 (nota: in realtà i dischi in cui Phil è presente sempre sono tre, ovvero, oltre al mio, quelli di Adrian Flores e della Wentus. Negli altri due, Model T e Alex Rossi, suona solo alcuni brani). Non sono da dimenticare le collaborazioni con il chitarrista anglo – americano Colin John (nel suo disco “Groove Yard Devils” - 2002, sono presenti 6 brani interpretati da Phil, tra cui le imperdibili Undercover e Funky Booty, con Phil as... “the Real Rapper”..!).
Tornando alla parte americana del suo lavoro, due sono state le persone importanti di questa ultima fase: Bruce Feiner e Lisa Mallen. Bruce, musicista, arrangiatore e produttore, ha curato gli ultimi due CD di Phil, Say What You Mean, JSP 1999, e He's My Blues Brother, Black Eyed 2006 (anche quest' ultimo CD avrebbe dovuto uscire per la JSP, ma in fase di post produzione si è verificato il distacco tra Phil e Feiner che ha portato all'uscita del disco per un' altra etichetta). Questi due dischi testimoniano ed approfondiscono il lato della musicalità di Phil che già era stato evidenziato dai lavori con Model T, Blues Gang e Colin John, e cioè quello funky soul. Sono dischi dal sapore particolare, con canzoni originali che Phil suonava anche dal vivo, come ad esempio la splendida ballata soul blues “Is It Him Or Me?”, o le latineggianti "Lonesome Blues" e "Say What Tou Mean". Non sono da dimenticare altri due brani: "Last Of The Blues Singers" (da Say What You Mean) e "He's My Blues Brother" (dal cd omonimo). Sono queste due canzoni cui Phil teneva enormemente (insieme a "Too Young To Die", da He's My Blues Brother", dedicata al nipote ucciso in Louisiana da una gang). Se la prima è un po' la canzone manifesto di Phil Guy, in cui rivendica il titolo di Last of the Blues Singers perchè è rimasto l' unico a suonarlo in un mondo pieno di troppo hip hop e rap (e non stupisca qui la contraddizione tra queste parole ed il fatto che Phil fosse poi uno dei pochi bluesmen a rappare un poco durante i suoi concerti, è un rapporto di amore/odio, forse, ma in realtà musicalmente e culturalmente indissolubile...), la seconda è invece la canzone che vede i due fratelli tornare insieme su disco per una traccia “familiare” che sottolinea il loro essere the real Blues Brothers: alla luce dei fatti, un dolcissimo addio...
Lisa Mallen, infine: anima del lavoro di Phil di questi ultimi 4 anni. Lisa stava riuscendo a fare emergere la sua figura al meglio con una precisa ed attenta gestione della sua attività. Phil era tornato ad esibirsi in tutti gli Stati Uniti, girando in quel circuito di locali in cui il Blues è presente e che gli appassionati conoscono. Iowa, Minnesota, California, Louisiana, oltre agli stati della costa Est. Erano tra le mete ricorrenti di Phil in questi suoi ultimi anni. I Blues Festival tornavano a chiamarlo, e le recensioni, gli articoli sulle riviste ponevano la luce sulla sua musica e sulla sua storia. Tra i risultati più concreti del lavoro di Lisa Mallen c'è la pubblicazione di He's My Blues Brother; la copertina e l'ampio articolo su Phil pubblicato da Living Blues nel 2005; la proclamazione del 28 aprile 2005 (nella data del suo compleanno) del “Phil Guy's Day” da parte del sindaco di Baton Rouge; ed infine la vittoria di due degli Chicago Music Awards 2007, quello di Best Blues Entertainer ed il Producer' s Award of Excellence.
Non sappiamo quindi fin dove si sarebbe potuto spingere il lavoro di Lisa Mallen e di conseguenza la carriera di Phil Guy, ma questi segnali e risultati ci fanno intuire che la possibilità di un reale balzo in avanti c'era e che era ad un passo. Fatto testimoniato anche dalla partecipazione e dalla reale commozione dell'intera comunità blues di Chicago alla scomparsa di Phil. Tutti i musicisti che non erano in tour o impediti da malattia hanno partecipato alle cerimonie funebri tenutesi tra il 25 ed il 26 di agosto alla Gatling's Chapel. Nei locali molti concerti sono stati dedicati a Phil e tanti hanno eseguito le sue canzoni.
Phil Guy è scomparso il 20 agosto alle 9.40 presso l'ospedale di St. James, Chicago Heights.
La sera del funerale, il 26 agosto, si è tenuta al Legends una jam session tenuta da Carlos Johnson che ha visto la partecipazione, tra gli altri, di Ronnie Baker Brooks, Big James Montgomery, Matthew Skoller, Snapper Mitchum. Martedì 30 settembre, sempre al Legends, nel corso di un concerto speciale alla presenza di familiari ed amici, “Ludella”, la Telecaster del '54 che è stata la chitarra di Phil praticamente da sempre, è stata inserita tra gli altri leggendari strumenti appesi alle pareti del locale.

il lavoro comune:

Ho lavorato con Phil Guy per 21 anni, dal 1987 al 2008. E' stata un' occasione unica perchè mi ha consentito di ottenere cose impensabili prima, di lavorare ed imparare musicalmente da un protagonista fondamentale del Blues, ed infine di vivere un'eccezionale avventura umana. In questi anni abbiamo suonato in mezza Europa, i principali festivals italiani ci hanno visti come loro ospiti, ed anche i clubs hanno spesso sentito la nostra musica. Non solo, sono anche stato spesso ospite della Chicago Machine quando ero negli Stati Uniti, ed è stato suonando con Phil nei clubs di Chicago che mi è capitato di dividere il palco con Junior Wells, Buddy Guy, Carey Bell. Ed è stato Phil a farmi conoscere Dave Myers, che fu con noi nella sua unica comparsa in Italia. E poi John Primer, che sarà con la Blues Gang nel 2009 e la cantante Delores Scott, anche lei sul palco con noi nel febbraio 2008 proprio per sostituire Phil già fermato dal male, che aspettiamo nuovamente a dicembre.
Phil è stato un collega, un maestro certo, ma anche e soprattutto un amico. Nel vero senso del termine, non in quello buonista ed abusato di questi nostri ultimi anni. E' difficile affrontare questa parte della vicenda senza retorica, il rischio c'è ed è qualcosa che voglio evitare, non fa parte del mio modo di essere. E' stata un'amicizia che è cresciuta e si è cementata lavorando insieme e, non a caso, il nostro disco si è chiamato, appunto, Working Together. Viaggiando, suonando, vivendo insieme nei giorni liberi. Ospiti l'uno dell'altro, nelle nostre case, andando  a far la spesa o camminando per le nostre città. Facendo lavori di casa, verniciando vecchie panche in cortile e poi suonando un poco prima di cena.
E' ormai normale che musicisti italiani si trovino a lavorare con bluesmen americani, il nostro blues sta crescendo e ottiene risultati e consensi. Non era poi così normale vent'anni fa e mi si passi che se lo è diventato sia anche merito di Phil e mio e di tutti quelli che sono stati parte di questa avventura insieme a noi. Ne ricordo alcuni, sperando di non scordarne nessuno...

Con Phil e me, hanno suonato:

Model T Boogie (1987 - 1989): Giancarlo Crea, armonica e voce; Nick Becattini, chitarra e voce; Alberto Marsico, tastiere; Davide Dal Pozzolo, sax; Renata Tosi, voce; Massimo Pavin, basso; Massimo Bertagna, batteria; Sergio Montaleni, chitarra e voce; “Lucky” Luciano Gherghetta, chitarra.

Blues Gang (1990 – 2008): Alberto Marsico, tastiere; Davide Dal Pozzolo, sax; Andy Romeo, sax; Marco Vintani, chitarra; Marco Messeri, basso; Maurizio Borgia, batteria; Alessandro Minetto, batteria; Stefano Pesce, basso; Marco Costa, tastiere; Katia Costa, tastiere; Lele Zamperini, batteria; Massimo Sbaragli, basso; Andrea Scagliarini, armonica e voce; Massimo Pavin, basso; Ilaria Lantieri, basso; Lucio Falco, basso; Massimo Bertagna, batteria; Roberto Berlini, batteria.


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