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Il sogno americano  a cura di Gianni Franchi, introduzione di Michele Lotta. 

Il sogno nel cassetto di noi tutti appassionati di Blues è visitare la terra d'origine, annusarne gli odori, osservare con i propri occhi ciò che si è appreso dai libri o - più recentemente - attraverso Internet, ma soprattutto ascoltare ed imparare da chi questa musica l'ha ricevuta in eredità dai propri padri.
Se si vuole trovare una data d'inizio al fenomeno "migratorio" dall'Italia bisogna risalire agli anni 70, per l'esattezza al 1972, allorquando due grandi appassionati di Blues, Gianni Marcucci e Luciano Maniscalchi, si recarono negli States armati di registratore
(alla stregua di Alan Lomax) per approfondire la conoscenza su personaggi all'epoca da noi sconosciuti. Riuscirono in seguito a pubblicare le loro registrazioni in quattro album per la Vedette (Albatros). Marcucci era anche chitarrista e fu proprio lui ad introdurre un giovane Ciotti nel mondo della musica del diavolo, ma questa è un'altra storia...
L'impronta del nostro paese negli USA la troviamo anche in uno dei locoli più famosi di Chicago, il Rosa's Lounge, fondato nel 1984 dal batterista Tony Mangiullo (già nella Windy City da qualche anno) e dalla sua mamma Rosa, nel quale ha suonato il gotha del Blues. Mangiullo ha svolto senz'altro un'opera meritoria aprendo le porte del suo club anche a diversi musicisti italiani ed offrendo loro la possibilità di confrontarsi con bluesmen autoctoni più o meno famosi. Oggi gli americani conoscono, apprezzano ed hanno rispetto per il nostro modo di suonare la loro musica.
Dagli anni 80 quindi, il viaggio verso La Mecca del Blues
alla ricerca del "sogno americano" è divenuto un passaggio necessario per chi coltiva progetti professionali. Sono stati in tanti ad avventurarsi, noi abbiamo chiesto ad alcuni amici che negli ultimi tempi hanno fatto questa scelta, di raccontarci la loro esperienza e le sensazioni che hanno provato.

Dany Franchi

SB: Perché hai deciso di andare negli States e quali posti hai visitato?

DF: Ho sempre sognato di vivere gli Stati Uniti, credo che sia un passo quasi "obbligatorio" da fare se si pensa di fare della musica americana la propria vita e il proprio lavoro. La prima volta sono stato in Ohio dove Sean Carney ha prodotto un mio disco, poi Memphis per l'IBC, Dallas per l'International Guitar Festival, Austin per registrare con Anson (ndr Anson Funderburgh famoso chitarrista texano), Colorado per il Blues from the Top Festival, Phoenix dove ho suonato con Kim Wilson; insomma questa è il mio sesto viaggio negli USA e da adesso, avendo un visto che mi permette di vivere o transitare liberamente qui, passerò parte dell'anno qui e parte in Europa. Ah dimenticavo, anche in California!

SB: Oltre a quelli citati sopra quali altri musicisti hai incontrato e con chi hai suonato? Quelli che ti hanno colpito di più.

DF: Ho avuto l'onore di suonare con Kid Ramos, Junior Watson e... Jimmie Vaughan, ma in casa sul divano! 

SB: In genere come sei stato accolto dai musicisti americani?

DF: …. è ormai da qualche anno che investo in questo paese e collaboro con musicisti d'oltre oceano, conoscevo già molti di loro ma devo dire che, in generale, ho avuto un'accoglienza incredibile da parte delle persone qui. Sia musicisti che non, e molti mi hanno aiutato ospitandomi, presentandomi ad altri e sopportandomi. C'è un grande rispetto per il talento ed il sacrificio qui.

SB: Una cosa che puoi dire di aver imparato da questa esperienza...

DF: Dipende cosa sei disposto a fare per realizzare i tuoi sogni, con costanza e sacrificio (tanto) tutto, o quasi tutto, si può avverare.

SB: Qual'è la differenza più evidente che hai notato tra i musicisti americani e gli italiani? se c'è...

DF: C'è, sopratutto se si parla di musica americana, ovvero quella che suono io e piace a me. C'è molta più attenzione alla sostanza, al feeling, al groove e al risultato finale... più che alla didattica o tecnica... ecco perché ciò che esce da qui suona sempre meglio.

SB: E riguardo al pubblico ed i clubs? Sempre le differenze...

DF: il pubblico americano ha di bello che si sa divertire e ama la musica live ma forse è più superficiale come "ascoltatore" rispetto all'Europa, specie il Nord Europa.

SB: Ok. Parlando di blues italiano, secondo te, cosa gli manca per avvicinarsi al livello degli esponenti originali di questa musica?

DF: Non sono nessuno per giudicare altri musicisti... per esperienza personale credo che spendere del tempo qui in USA, a contatto con i veri esponenti di questo genere, sia fondamentale: è come un'università.

SB: Ok era un discorso generale non sui singoli. Va bene comunque come risposta. Ultima cosa e ti lascio.

DF: vai!

SB: Se hai un aneddoto particolare da raccontare anche non legato alla musica od una cosa che ti ha particolarmente colpito...

DF: Ce ne sarebbero tanti... la cosa bella di passare del tempo vicino ai maestri è carpire gli aneddoti e le storie... e devo dire che ne ho sentite davvero tante... la prima che mi viene in mente... attualmente sto vivendo a casa del leggendario batterista Wes Starr e proprio lui mi diceva che diverse volte hanno dovuto "sostituire" Stevie Ray Vaughan con Omar and the Howlers perché Stevie era troppo alto di volume e dopo due pezzi lo facevano smettere..

Andrea De Luca

SB: Perchè hai deciso di andare negli States e quali posti hai visitato?

ADL: ... che dire Gianni, gli Stati Uniti sono sempre stati il mio sogno... di chi non lo sono? soprattutto per i musicisti che fanno blues, blues/rock... Ormai da più di 10 anni sono alla ricerca di un paese dove poter realmente lavorare con la mia Musica, facendo concerti, scrivendo e registrando Lp (elleppì... LOL!!) e pur sapendo con certezza che il fermento musicale per eccellenza fosse negli States, ho esplorato abbastanza approfonditamente l'Olanda, dove sono stato più di dieci volte anche per più mesi; un po' l'Inghilterra, la Svizzera, la Germania, la Repubblica Ceca ed infine l'isola di Tenerife. Dopo queste esperienze che in maniera obliqua hanno segnato la mia vita artistica ho sempre pensato che fosse davvero un processo lunghissimo quello di trasferirsi ed inserirsi nel business della musica live e quindi ho finalmente focalizzato che l'investimento migliore sarebbe stato andare in America: Los Angeles?... New York?... Chicago?... San Francisco? ... E CHI LO SAPEVA??? Quindi un anno e mezzo fa deciso con determinazione che circa un anno dopo sarei partito per una prima esperienza, diciamo un sopralluogo di tre mesi, cercando di fare il meglio per ottenere un visto che mi permettesse di stare più tempo e magari anche di poter già lavorare nell'ambito musicale. Così ho iniziato una lunga trafila di ricerca voli, informazioni, amici di amici di amici con dritte e consigli, assicurazione medica, esta, patente internazionale, ecc. ecc... e non per ultimo capire come si faceva ad ottenere questo visto artistico. Sorvolo su tutta questa fase dicendo che è una bella fatica, che tutto è diverso da come siamo abituati noi qui in Italia, che non hai mai la sicurezza di ottenerlo... io stesso ancora non ce l'ho ma incrocio le dita h24... e che è una bella sfida ma non è impossibile. Approfitto per ringraziare tutte le persone e gli amici musicisti che mi stanno aiutando in questo momento sia qui a Roma, sia li in America. Tornando a dove sono stato, altrimenti mi picchiate :P ... nel 2010 stavo suonando a Praga con la mia band "The Sharp Donkey" ho conosciuto un chitarrista californiano in tour in Nord Europa. Una sera dividiamo il palco in un locale molto bello di Praga il "Popo Cafè Petl"... Sean Moody, subito molto affettuoso, mi dice di essere tanto interessato alla cultuna italiana e di aver vissuto per un paio di anni a Umbertide, in Umbria, ma che poi la sua band aveva firmato un contratto con una produzione inglese che li aveva portati in Repubblica Ceca dove lui ha poi trovato l'attuale moglie :) tornato in California, siamo rimasti amici per tutto questo tempo grazie a Facebook e quando ho detto a Sean che sarei andato negli Stati Uniti l'estate 2017, mi ha subito detto "OK man!! you'll have a place to stay!!", intendendo che mi avrebbe ospitato per tutto il tempo necessario nella sua bellissima casa a Sacramento in California. Ho iniziato così a pianificare il viaggio partendo da li e sono stato a Sacramento per un mese andando spesso a San Francisco, Oakland, poi a Los Angeles per tre settimane ed infine a Portland in Oregon per più di un mese.

SB: Hai incontrato e suonato con musicisti del posto?

ADL: Si Gianni moltissimi! Un mio carissimo amico mi ha messo in contatto con Angel Reyes, una leggenda della sei corde, originario di Sacramento ma molto famoso in tutta la Bay Area per essere stato il chitarrista di Sylvester che nei primi anni settanta iniziava l'ascesa verso le hit-paredes. Angel, oggi un signore di sessant'anni e più fissato con Jimi Hendrix, è stato veramente generoso con me offrendomi la possibilità di conoscere decine di musicisti e di suonare in locali, teatri e backyard parties (le feste private in giardino). Mi ha fraternamente prestato una stratocaster molto preziosa (il seriale era cancellato dalla paletta ma a detta sua la chitarra era della fine dei 60...) e un bellissimo amplificatore Fender Deluxe Reverb, oltre a cavi, stand, capotasto, slide... Inoltre mi ha sempre portato con lui come special guest (spesso pagato) nei suoi concerti e, ogni volta che parlava con qualcuno tra colleghi o pubblico raccontava la mia storia, mi presentava e cercava di farmi avere informazioni o aiuti per visto e naturalizzazione. Grazie a lui ho conosciuto e suonato con Lester Chambers, leader della stra-conosciuta band The Chambers Brothers con cui abbiamo omaggiato Jimi Hendrix insieme con il resto della band, ed Angel Reyes aprendo un super rifacimento del musical "HAIR" presso il "Great Star Theater" nella stupenda China Town a San Francisco. Ho conosciuto moltissimi musicisti professionisti e suonato con molti di loro, sono stato richiesto da subito per sostituzioni e/o creare bands, per fare turni in studio, radio shows ed anche per insegnare chitarra e lap steel in uno dei Guitar Center di Sacramento (una volta in possesso di un visto lavorativo). Tutti gli addetti ai lavori mi hanno accolto come uno di loro immediatamente, facendomi davvero un mare di complimenti per quanto stavo dentro il linguaggio del Blues risultando assolutamente autentico anche nell'avere un ottimo accento quando cantavo ed aiutandomi a capire come fare a potermi trasferire stabilmente. Tutti davvero affettuosi, disponibili e ipertranquilli. Quando poi sono andato a Los Angeles la musica è cambiata un bel po', una metropoli assurda, tanto bella quanto pericolosa se non sai bene dove andare. Ho affittato una stanza nel cuore di Hollywood, ho fatto colloqui di lavoro per scrivere musica da colonne sonore e brani pop... insomma ho seminato anche li ma è stata una manovra molto più difficile non avendo nessuno che mi potesse introdurre come Angel ha fatto tra Sacramento e San Francisco... e terribilmente cara economicamente parlando. Durante il mio soggiorno losangelesiano, oltre a frequentare tutti i giorni i vari negozi di strumenti musicali per conoscere musicisti, ho continuato a cercare informazioni sul web su dove poter lavorare con i concerti blues nei clubs e ho scoperto che Portland, in Oregon, lo stato più liberale degli Stati Uniti, è una grande capitale del Blues. Il caso ha voluto che attraverso il social network Linkedin arrivassi ad un chitarrista turnista di altissimo livello (sto parlando della band di Carlos Santana) che mi ha assolutamente confermato che Portland, tutto lo stato dell'Oregon e lo stato di Washington sono certamente posti in cui poter fare il mio lavoro e in cui la rete di musicisti blues funziona benissimo credendo loro nel concetto di team, squadra... famiglia, e dicendomi: "vai ragazzo, se sei forte come credo, li troverai la tua strada!". Detto fatto: ho deciso di andare a Portland immediatamente e ho iniziato a cercare su Facebook i bluesman della zona che sin da subito mi hanno aiutato e chiesto di fare date insieme, di scrivere brani originali, creare progetti e registrare dischi... INCREDIBILE!! Sono partito il 23 agosto e inizialmente ho avuto un po' di problemi per trovare un alloggio ma in una settimana mi ero stabilito ed ero pronto per lavorare. Anche qui, ho avuto il supporto di musicisti come Ben Rice, un giovane bluesman di Portland che vanta già degli awards rilasciati da diverse Blues Society, riconoscimenti come miglior chitarrista blues dello stato dell'Oregon e circa 200 date l'anno tra clubs, ristoranti e festivals blues anche in Colombia e Messico; oppure Dave Melyan, batterista blues impegnato in vari progetti, che mi ha detto subito che sarebbe stato contentissimo di fare una o più bands con me... Infatti, in poco più di un mese ho fatto più di venti concerti tra serate da special guest, house band per jam sessions, concerti da leader in trio o quartetto e anche un paio di concerti da duo acustico. Anche nella città delle rose, così chiamano Portland in America, ho trovato possibilità di insegnare in piccole e medie scuole di musica. E' stato pazzesco, dopo la prima settimana trascorsa a cercare un posto dove stare e a dare in giro bligliettini da visita, il mio telefono ha iniziato a squillare e ho iniziato a suonare in giro.

SB: Hai notato differenze tra il pubblico ed i locali americani e quelli nostrani?

ADL: si Gianni! e la differenza è sostanziale. Ti spiego come vanno di solito le cose. Facciamo conto che si suona dalle 6 alle 9 di sera in un posto a 30 miglia da Portland. Si parte alle 5, si arriva sul posto alle 5,30, scarichi, fai un breve check e inizi a suonare, puoi ordinare da bere e la cena per dopo il concerto, spesso open bar oppure 2/3 consumazioni, tutti con il sorriso e tutti contenti che ci sarà della musica dal vivo per un pubblico che sta in silenzio quando si suona, sta in silenzio quando si presentano i brani ed è affettuosissimo con te che stai facendo con passione il tuo lavoro sul palco. Anche i fonici quando ci sono ti trattano con simpatia, disponibilità e professionalità. Ogni sera, oltre al chachet pattuito con il locale che puo' oscillare tra i 70/80$ ai 150$ per musicista, ci si dividono le famose tips (mance) e spesso superano il cachet... quindi è molto probabile che se suoni in trio in un bel locale pieno, nel contenitore delle tips troverai anche 200/300$. La cosa più bella è vedere gli sguardi che ti lancia la gente quando viene a darti una mancia, ti sorridono, ti fanno i complimenti e ti ringraziano per la musica che stai facendo per loro. Durante le pause, il contatto con il pubblico è assicurato, loro vengono da te a chiederti dove risuonerai il giorno dopo (perchè li è normale che tu suoni 3/4/5 volte a settimana), se hai un profilo Fb o se su altri social e tu gli dai il bigliettino da visita... e così nasce tutto, cominciano a scriverti e chiederti dove poter ascoltare la tua musica live o comprare i tuoi dischi e l'affiatamento è inevitabile..

SB: Come sei stato accolto in genere?

ADL: sono sempre stato accolto con calore e gentilezza, tutti molto orgogliosi di avere nel club o nello studio di registrazione un artista come me proveniente da così lontano e così determinato nel creare il suo futuro nella terra a stelle e strisce. Tutti davvero stupiti dal mio modo di fare la mia cosa... I love the way you do your thing...

SB: Cosa ti ha più colpito di questo viaggio?

ADL: la tranquillità delle persone in Oregon, la disponibilità, la voglia di fare, quanto circolano i soldi, costo della vita doppio ma guadagni perfettamente proporzionali, il livello di civiltà, la grandezza delle strade, quanto è diverso viaggiare anche per 400 miglia sulle freeways, il costo della benzina, quanto funziona tutto alla perfezione. Un'altra vita, davvero.

SB: Cosa hai imparato suonando nella terra del blues?

ADL: ho imparato che non è possibile se sei un musicista non conoscere la tradizione del blues, i turn arounds e le strutture dei blues classici. Infatti all'inizio di ogni brano quando si fa una serata insieme, il leader ti dice quali sono i gradi della scala su cui gira il pezzo... tipo "that's a One Five One For Five starting from the Five"... sarebbe un blues primo quinto primo quarto che parte con una intro dal quinto grado... tutti conoscono questo tipo di armonia, non solo chi suona uno strumento armonico ma anche cantanti e batteristi che conoscono anche tutti i tipi di accordi... che meraviglia. Ho imparato inoltre che ci possono essere i tempi tecnici sul palco, ad esempio quando hai più strumenti e più accordature nessuno ti metterà fretta nel tuo cambio strumento, né i tuoi colleghi né il pubblico. Ho imparato che per conquistare le persone devi raccontare la tua storia, ti devi aprire, spiegare la tua emozione o magari raccontare cosa ti è successo nello scorso concerto... e loro sono li per ascoltarti, in silenzio oppure partecipando attivamente alla conversazione.

SB: Quale è la differenza più evidente che hai notato tra i musicisti americani e gli italiani?

ADL: più di qualcuno mi ha detto "... if you are cool you are cool and you deserve to work with us and that's it... you are very welcome in our big blues family - se sei forte sei forte e meriti di lavorare con noi e questo è tutto, ti diamo il ben venuto nella nostra grande famiglia blues". Questa frase me l'ha detta anche Dover Weinberg uno dei pianisti della band di Robert Cray, originario di Portland e tanti altri come il chitarrista e il bassista del progetto "The Blind Boys of Alabama", Ed Neumann, Lester Chambers, Bo Ely, Frankie Munz, John Jr. Mayers, Randy Carey, Roharpo Bluesman e tantissimi altri. Sostanzialmente se il tuo modo di fare musica piace loro cercano in tutti i modi di inserirti e creare nuove bands con te così si lavora di più tutti quanti!

SB: Cosa manca secondo te (se manca) al blues italiano per essere al livello di quello originale?

ADL: Gianni tu lo sai, sono già tanti anni che cerco di fare blues in Italia e quello che manca, non per essere banale ma è proprio la meritocrazia. Sinceramente ho avuto più opportunità stando tre mesi in America che negli ultimi anni nel nostro paese. Pur vantando progetti di livello altissimo, e cito la mia collaborazione con Dean Bowman (ex leader degli Screaming Headless Torsos), con Mark Peterson (contrabassista e bassista per leader tipo Gloria Gaynor, Joan Baez o James Blood Ulmer), con Roberto Gatto (noto batterista jazz italiano, forse il più famoso), faccio davvero una fatica immane a suonare in giro per l'Italia. Tutto bloccato, tutto pieno, e di tutto si parla meno che di musica. Spesso gli organizzatori o gestori dei locali non rispondono per niente alle tue proposte o telefonate, ti fanno richieste assurde che magari neanche saranno rispettate, oppure ti dicono "... ma si fai bene, vattene in America che qui non c'è posto per musicisti del vostro livello". Tutto questo meccanismo azionato in parte dai musicisti che decidono di fare i bluesman come hobby e che possono posizionarsi al posto dei professionisti anche in molti festivals della penisola e nella maggior parte dei locali, non pretendendo cachet proporzionati ai contesti e segando così le gambe a chi vorrebbe realmente preservare il valore del Blues nella nostra amata Italia e farne un lavoro. Cosa manca? Manca una reazione, manca la squadra di cui sopra e molti di noi prendono la decisione di ricominciare altrove.

SB: Un aneddoto che vuoi raccontare di questo viaggio, non necessariamente legato alla musica.

ADL: una sera suono al Barbery di McMinnville, un bellissimo ristorante con musica dal vivo che si trova ad un centinaio di chilometri da Portland. Una serata piovosa e il locale non era pieno come al solito. Faccio il mio concerto, smonto, mangio la gustosa mega insalata vegan richiesta durante il check e quando il direttore artistico viene a pagare la band dice "... scusate ragazzi, deve essere colpa della pioggia e questa sera non c'era tanta gente, mi dispiace tanto, voi meritare il locale pieno... infatti siete stati fortissimi come sempre e tu, ragazzo italiano, dammi i tuoi contatti perchè quando tornerai voglio ingaggiarti come artista fisso nel mio calendario!!". Cos'altro devo aggiungere?

Stefano Carboni

SB: Perchè hai deciso di andare negli States e quali posti hai visitato?

SC: Ho fatto un itinerario al contrario quindi dal Chicago blues a Chicago e fino al delta blues in Mississippi per poi concludere in Louisiana. Quindi ho visitato Chicago, Memphis, Clarksdale, Tunica, Greenwood, Natchez, Baton Rouge e New Orleans. Ho deciso di andare negli Stati Uniti perché dopo tanti anni di passione e di pratica del Blues mi sono reso conto che era necessario andare oltre, esplorare quindi le radici di questa musica che amo tanto. Ci ho un messo diversi mesi a realizzare e a programmare questo viaggio in quanto sapevo che per molti versi avrei avuto solamente un'occasione da sfruttare per approfondire tutto ciò che avevo intenzione di apprendere. In questo modo ho vissuto i preparativi del viaggio senza tralasciare nessun dettaglio considerandolo come l'unico viaggio che avrei fatto nella terra del blues. Ragionando in questi termini sapevo che, anche se in realtà probabilmente non sarebbe stata l'unica volta che avrei visitato quei luoghi, che non sarebbe sfuggito nulla ai miei occhi, alle mie orecchie; avrei catturato qualsiasi immagine qualsiasi suono e qualsiasi emozione mi si fosse presentata.

SB: Hai incontrato e suonato con musicisti del posto?

SC: Sì ho incontrato tanti musicisti e suonato in tutte le città che ho visitato. In particolar modo, partendo da Chicago sono andato a trovare il mio amico Tony Mangiullo proprietario del Rosas' Lounge con il quale quella sera ho suonato. Lui è un ottimo batterista che nella sua carriera di imprenditore musicista ha suonato con Junior Wells e Buddy Guy e con tantissimi altri esponenti del Chicago blues, e così ho avuto l’onore di partecipare ad una session con l'armonica e con alcuni brani che ho cantato in compagnia di questa band in cui si alternavano alla voce anche lo straordinario Willy Buck e Mary lane, tutti e due con più di ottant'anni di età e quindi circa cinquant'anni di Blues forse anche 60 dentro le loro ossa. Poi al B.L.U.E.S. club con il grande Carlos Johnson che a sorpresa mi ha invitato sul palco facendomi esibire con l’armonica in un blues strumentale, per rendermi protagonista della gig come solista e per non mettermi in secondo piano cantando con la sua voce possente. Impressionante la delicatezza e gentilezza di quest’uomo che prima si limava le unghie con la lima da fabbro e poi è stato capace di avere un'attenzione così grande per me senza nemmeno conoscermi (ci aveva presentato poco prima un amica comune che ringrazio ancora oggi Rita Stile). Poi, appena arrivato a Menphis, grazie a i contatti del mio amico Massimo Bevilacqua sono stato accolto dal suo amico, e spero ormai anche mio amico, Tom Gorbea che mi ha subito accompagnato al BB King club di Memphis in Bale Street dove c'era la band del grande Blind Mississippi Morris e alla chitarra l'amico Frank Monteleone il quale, pur non trattandosi di una Jam, mi ha invitato sul palco e per una session di circa 5/6 brani dopo i quali sono sceso dal palco e abbracciando Tom non sono riuscito a trattenere le lacrime per l'emozione di essere lì in quel momento e di aver partecipato a una Gig strepitosa. Infine a Clarksdale ho conosciuto un grande amico è un grande musicista, Stan Street, il quale mi introdotto nella Gig più figa del mondo, quella al Ground ZeroBlues Blues club dove ho conosciuto Lala, pianista strepitosa, Big A, chitarrista e cantante giovane ma talentuoso, e Lucius Spiller bassista, chitarrista e cantante. Naturalmente c’era anche il grande Stan Street, armonicista, batterista, cantante, oltre che pittore e scultore. Anche a Clarksdale ho suonato e cantato i classici del blues, con un pizzico di emozione in più dopo aver visitato il Delta Blues Museum dove è conservata una stanza originale della casa di Muddy Waters prelevata dalla Stovall Plantation dove crebbe fino a all’età di 30 anni e dove fu scoperto con la prima registrazione dall’etnomusicologo Alan Lomax.

SB: Hai notato differenze tra il pubblico ed i locali americani e quelli nostrani?

SC: Sì ci sono delle differenze tra il pubblico che abbiamo in Italia e il pubblico che c'è in America, naturalmente la cosa più lampante è la grande partecipazione e che hanno negli Stati Uniti nell'ascoltare il Blues soprattutto nel Sud dove anche in locali non molto accoglienti dal punto di vista estetico puoi trovare un pubblico giovane, un po' più attempato, la signora che vedi a fare la spesa al supermercato, piuttosto che la coppia di giovani innamorati che si abbracciano mentre ascoltano il Blues. Non trovi nessuno che guarda il cellulare nessuno che fa foto e video, ma tutti attenti a ciò che ascoltano. la differenza fondamentale è che il Blues è concepito non come intrattenimento ma come un evento, non si tratta di musica dedicata al sottofondo, non si tratta di musica che necessariamente deve essere conosciuta per essere poi cantata dal pubblico, non deve essere un brano o più brani che passano in radio tutti giorni, semplicemente il pubblico in quei luoghi apprezza anche solo il modo di suonare, il groove, il ritmo, il talento e soprattutto percepisce a mio parere l'anima di chi sta suonando attraverso le note degli strumenti e dalla voce, questo naturalmente porta ad una grande partecipazione sia in termini di numero che in termini di coinvolgimento.

SB: Come sei stato accolto in genere?

SC: Sono stato accolto sempre molto bene in tutti i posti dove sono stato e soprattutto al Sud dove i rapporti umani rispetto alle grandi città sono privilegiati, c'è quella calma e quel tempo in più che può essere dedicato a una semplice chiacchierata, piuttosto che sedersi fuori da Riverside Hotel a fare due chiacchiere, piuttosto che fuori da un locale a fumarsi una sigaretta. Sono stato accolto molto bene anche dai musicisti con cui ho suonato, mi hanno fatto sentire a mio agio, mi hanno fatto molti complimenti, addirittura a volte da risultare imbarazzanti per me. Ma la cosa che mi ha colpito di più è stata la incapacità da parte loro, e questo è un complimento, di trattenere Le emozioni, e quindi ti trovi di fronte a persone che non hanno filtri nel bene nel male quindi se vogliono se ti vogliono abbracciare ti abbracciano... e se dopo aver suonato non vogliono che tu vada via ti dicono "riporta il tuo culo su quel palco".

SB: Cosa ti ha più colpito di questo viaggio?

SC: La cosa che mi ha colpito di più di questo viaggio, a parte la musica, è stato il fatto di poter vedere un lato degli Stati Uniti che pochi vedono. Tutti vanno a visitare che grandi città che ormai sono globalizzate e che sono molto europee nelle abitudini, mentre visitando luoghi come Memphis, Clarksdale, Natchez, Baton Rouge e New Orleans, ti rendi veramente conto che la vita lì è diversa, per alcuni aspetti puoi notare la Depressione economica che si contrappone alla Gioia di vivere, ed il Blues che loro rivendono per convenienza come musica triste ma in realtà esprime tutta la loro voglia di vivere. La grande ospitalità del Sud e la gioia della condivisione, anche con persone apparentemente sconosciute, e la voglia di fare musica esaltandosi ogni sera su un palco diverso, mi hanno dato la certezza che per loro il Blues è linfa vitale non solo dal punto di vista economico.

SB: Cosa hai imparato suonando nella terra del Blues?

SC: Ho imparato che bisogna vedere oltre le apparenze, che dietro una baracca (shack) trasformata in bed & breakfast, puoi trovare un mondo di idee, inspirazioni ed emozioni, che non importa se non sei perfetto, l’importante è che ci metti il cuore oltre allo studio, che se sali sul palco per suonare e sei emozionato, oltre alla musica ascolteranno anche i tuoi sentimenti. Con questo non dico che non giudichino la qualità artistica di un musicista, ma che per loro non basta. Non basta essere bravi a suonare, è necessario dare tutto senza risparmiarsi. A me personalmente, suonare nella terra del Blues, ha lasciato una grande forza e una grande energia che sarà sempre il mio carburante nei momenti di down e ogni volta che salirò su un palco per suonare Blues.

SB: Quale è la differenza più evidente che hai notato tra i musicisti americani e gli italiani?

SC: La grande differenza che ho notato tra i musicisti italiani di blues e i musicisti americani è quella che chiamerei sportività, non esiste una grande competizione, non esiste invidia, almeno ai miei occhi, esiste la condivisione della musica che loro amano suonano e che noi amiamo e suoniamo. Poi, un'altra cosa importante che ho notato è che molti di loro soprattutto nel Sud, forse anche per la necessità di suonare più spesso e di arrangiarsi, è che ciascuno di loro spesso suona più di uno strumento, ad esempio Lucius Spiller che oltre a cantare, suona il basso e la chitarra, e questo per far capire che probabilmente non bisogna essere necessariamente degli specialisti di uno strumento ma semplicemente bisogna conoscere lo strumento e quello che si sta suonando quindi meno tecnicismi e più anima questa è la differenza lampante. Un'altra differenza è che spesso molti di questi musicisti mescolano le loro band in base alle loro necessità quindi se la sera prima si suona in un locale si canta e si suona la chitarra con un trio, il giorno dopo li puoi trovare con la band resident di una Jam. Quindi molto spesso soprattutto in piccole città come Clarksdale si ritrovano a suonare le stesse persone con formazioni diverse da un giorno ad un altro senza invidie o competizioni tra di loro.

SB: Cosa manca secondo te (se manca) al blues italiano per essere al livello di quello originale?

SC: Sinceramente penso che da un punto di vista tecnico non ci sia una carenza da parte di musicisti italiani blues rispetto ai musicisti americani, la grossa differenza è data invece da quello che loro trasmettono attraverso il blues con qualsiasi strumento, dall'armonica bocca, alla chitarra, al pianoforte, lo strumento è solamente un prolungamento delle mani e della voce. Non stanno lì a controllare se fai una nota sbagliata, oppure se sei un po' calante su una nota, oppure se non fai degli assoli strumentali da funambolo, loro secondo me vedono oltre ed è stata la sensazione che ho avuto io anche per quanto riguarda me stesso e mi spiego come loro mi hanno percepito. Chiaramente attraverso la loro musica e attraverso le loro voci, non si preoccupano solamente del lato tecnico o del lato economico, e tutto questo chiaramente influenza anche il modo che hanno di rapportarsi con il pubblico coinvolgendolo molto perché loro stessi sono coinvolti in ciò che stanno suonando questa è la differenza fondamentale secondo me.

SB: Un aneddoto che vuoi raccontare di questo viaggio, non necessariamente legato alla musica?

SC: Non riesco a scegliere un solo aneddoto da raccontare, ce ne sono diversi… ma sicuramente un aneddoto curioso del mio viaggio, legato indirettamente alla musica, è avvenuto nella piccola cittadina di Natcehz, circa 300 miglia a sud di Clarksdale. Siamo arrivati di sabato pomeriggio, e alle 17 ora locale tutti i negozi erano già chiusi. Passeggiando per le strade non c’era nessuno, l’aria era calda e umida, abbiamo girato tutto il paese e visto i bellissimi edifici storici, e il giorno dopo, essendo domenica, siamo andati a cercare una messa Gospel. Arrivati nei pressi di una chiesa abbiamo visto che stava per iniziare e siamo entrati, siamo stati accolti dal diacono e all’entrata delle signore vestite tutte uguali ed a mo’ di hostess ci hanno fatto sedere, e sempre in silenzio e con il massimo rispetto, ci siamo seduti in fondo visto che eravamo gli unici turisti presenti. C’era un Coro di quattro donne over 50 e una quinta che suonava il piano verticale. Cantavano divinamente e oltre a loro il Reverendo, alto e robusto, con una lunga barba bianca, con voce stentorea, cantava meravigliosamente da solista. Ci hanno fatto compilare una tessera con i nostri dati e una di queste signore poi è andata al microfono per dire a tutti che noi eravamo li ed eravamo venuti da Roma. Il Reverendo dopo averci ringraziato ci ha dato una sorta di benedizione e subito dopo tutte le persone presenti sono venute a salutarci in fondo alla chiesa con grandi sorrisi e con grandi abbracci. Momento da pelle d’oca essere abbracciati da decine e decine di sconosciuti senza però provare il minimo disagio, eravamo stati accolti nel modo migliore come in una casa e così ci sentivamo, a nostro agio e circondati da amore sincero. La cosa divertente è stata che ci hanno consegnato anche dei gadget della chiesa come il buon marketing insegna, una busta brandizzata con un pacco di fazzoletti, il liquido per igienizzare le mani, una penna con il nome della chiesa e un foglio con una preghiera. Siamo usciti da lì con il cuore pieno di gioia e gli occhi lucidi. Abbiamo compreso cosa significa per loro essere senza filtri, senza maschere, nell’esprimere i loro sentimenti. Altro episodio da ricordare è stato quando ho visitato la tomba (quella vera) di Robert Johnson, che più che un aneddoto è stata una sensazione che porto con me ancora oggi. Eravamo a Greenwood e grazie alle preziosissime indicazioni di Massimo Bevilacqua siamo arrivati alla chiesa accanto alla quale c’era il cimitero dove fu sepolto Johnson. Una lapide grande con intorno bottiglie semi vuote di Bourbon e sigarette, e guardandola ho avuto la sensazione di essere arrivato come alla fine di un viaggio, finalmente sentivo di essere tornato a casa dopo tanti anni e tantissimi chilometri. Chiaramente è la follia di un uomo che vede il Blues non solo come una passione ma come un mondo che gli appartiene, ma questo è sinceramente ciò che ho provato.





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