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Andy J. Forest   a cura di Amedeo Zittano, foto di Michele Lotta
 
Parlando con Andy non si può fare a meno di percepire la grandissima esperienza che traspare dal suo sguardo; i suoi occhi sembrano raccontare storie incredibili vissute intensamente. La vita di Andy J. è degna del più intrigato dei romanzi, una storia ricca di viaggi e avventure che lo vedono protagonista non solo come musicista ma anche come attore, scrittore, poeta e pittore.
Andy J. Forest nasce nel 1955 a Pullman, Washington, ma la sua famiglia si trasferisce presto nel Southern California nei pressi di Pasadena. All’età di 12 anni acquista la sua prima armonica a bocca per 1,35 $ cominciando così ad appassionarsi al blues. Assiste ai concerti di vari maestri tra i quali Sonny Terry, suo principale punto di riferimento. All’età di 16 anni abbandona gli studi per dedicarsi anima e corpo alla musica, così decide di intraprendere un lungo viaggio, anzi "il lungo viaggio" della sua vita. Le principali tappe sono le isole Hawaii, le Isole Vergini, New York, il Nord Pacifico, per arrivare nel 1974 a New Orleans, città in cui decide di stabilirsi. A soli 19 anni vanta un curriculum di oltre 30 mestieri tra cui: pescatore, commerciante, raccoglitore nelle piantagioni, marinaio, operaio con varie specializzazioni, elettricista, ecc. Ovviamente non trascura mai le passioni artistiche e sportive. Studia violino, basso, sassofono, chitarra, danza latina, scherma, equitazione, basketball, sci e tiro con l’arco, inoltre parla correttamente almeno quattro lingue. A New Orleans risiede per tre anni; un momento fondamentale per l’Andy J. musicista in quanto è proprio in questo periodo che emerge la maturità necessaria per diventare un professionista e suonare con Earl King...
Nel ’77 intraprende un viaggio per l’Europa con l’intento di ritornare dopo tre mesi ma, com'è accaduto anche per altri suoi colleghi, decide di stabilirsi in Italia per più di quindici anni. Ancor oggi la sua vita è vissuta a metà tra New Orleans e lo stivale.
In Francia fa amicizia con Tao Ravao, noto chitarrista del Madagascar di padre francese, con il quale girovaga per l’Europa. Tenta anche una capatina in Marocco e Senegal ma una guerra in corso nel Sahara manda a rotoli i suoi programmi. Nel gennaio del 1979, dopo aver conosciuto Roby Zonca a Parigi, si trasferisce a Bologna e solo dopo alcuni mesi registra, grazie anche a Oderzo Rubini, il suo primo LP “The List” (Italian Records). La prima formazione è composta da: Roby Zonca (chitarra), Davide Colferrati (basso), Fabio Sorti (batteria) e Paolo Matteotti (chitarra). Parallelamente comincia l’attività d'insegnante di armonica.
In Europa Andy J Forest suona con B. B. King, James Cotton, Champion Jack Dupree, Johnny Shines, Willy DeVille, Magic Sam, Matt Murphy, Lonnie Johnson, Bobby Blue Bland, Roy Rogers, Luther Allison, Taj Mahal, il gruppo di Otis Rush, Dave Alvin, e tantissimi altri. Collabora con artisti italiani del calibro di Edoardo Bennato, Eugenio Finardi, Zucchero e Guccini. In Italia Andy si scopre anche attore. Nel ’85, durante una serata al Big Mama di Roma, è notato e presentato al mondo del cinema. Per circa 5 anni interpreta film in location di tutto il mondo: nel deserto del Sahara marocchino, Jugoslavia, Brasile, Canada, sul fiume Orinoco in Venezuela e - ovviamente - in Italia, diventando personaggio chiave di due grandi registi italiani: Umberto Lenzi e Tinto Brass. L’impegno come attore gli consente di essere testimonial per una dozzina di spot televisivi. Nel 1999 Andy pubblica il suo primo libro (in passato aveva già pubblicato poesie e racconti) dal titolo “Letter from Hell”, un romanzo diventato ormai cult. Andy J.Forest riscuote ampi successi anche per i suoi bellissimi quadri, alcuni dei quali, dopo una serie di mostre a livello internazionale, fanno attualmente bella mostra al Sonny Boy Williamson Museum di Helena Arkansas e al dipartimento artistico della House of Blues.
Il suo stile armonicistico è unico, deciso ma non invadente, veloce ma non logorroico, mai fuori luogo, mai noioso e sempre alla continua ricerca di se, facendo di ogni suo lavoro discografico un’opera unica. Nel suo sound più maturo si possono assaporare sfumature importanti di Zydeco con un underground legato al blues più arcaico e, nello stesso tempo, ballate più melodiche che non escludono interessanti orizzonti innovativi. Superflua è l’annotazione dei festival a cui è stato invitato: praticamente tutti. I passaggi televisivi italiani più importanti sono: “D.O.C.”, Jeans, Roxy Bar, MTV e Pickwick. In più di venticinque anni di attività è stato autore di oltre cento brani e di 18 lavori discografici (senza contare le decine di collaborazioni), un gran numero di opere letterarie tra poesie e racconti brevi, dozzine di quadri sparsi per il mondo, ecc. Ecco dunque il motivo per il quale ogni recensione su di lui inizia con l’appellativo “il poliedrico”.

Intervista

SB: “È il Blues a scegliere il musicista”. Supponendo vera quest’idea, quando e come il Blues ti ha scelto?

AJF: Mmh… credo dal momento che ho cominciato a suonare. Da piccolo non ascoltavo solo blues ma anche swing, jazz, rock (Rolling Stones, Jimy Hendrix), ed anche i dischi dei miei genitori che erano molto jazz (Billy Holiday e co.). Insomma, ascoltavo un po’ di tutto ma nel momento in cui ho cominciato a suonare con uno strumento mmi venivano fuori solo cose Blues. Ricordo che la prima volta che presi in mano un’armonica volevo suonare come Bob Dylan; poco dopo mi sono accorto che Dylan non era un gran che come armonicista, anche se devo ammettere che ancora oggi non riesco a suonare come lui e quindi Bob resta per me inimitabile.

SB: Sei arrivato in Italia all’inizio del ’79 dopo qualche anno in giro per l’Europa a suonare on the road (vedi intervista Roby Zonca). Nel giro di pochi mesi pubblichi il tuo primo album “The List”. Raccontaci questa esperienza.

AJF: L’esperienza in studio fu moto bella anche se il disco a mio parere era molto freddo. La casa discografica ci notò dal vivo ed eravamo davvero scatenati, in studio invece venne fuori un suono troppo “pulitino” quindi, per alcuni pezzi, pensammo bene di cambiare location. Penso che The List non rappresenta davvero come suonavamo in quegli anni, nonostante i brani fossero quasi tutti originali.

SB: Perché la scelta di pezzi originali? In fondo dal vivo andavate molto forte sulle più conosciute cover dei classici del blues…

AJF: Mi sono detto: “non potrò mai suonare i brani di Waters meglio di lui ed ho deciso quindi di fare brani miei”. E poi c’era il discorso dei diritti d’autore… almeno avrei potuto sperare in un piccolo riscontro economico. Così mi iscrissi alla SIAE.

SB: E' stato difficile per un americano da pochi mesi in Italia iscriversi alla SIAE?

AJF: all’inizio pensavo che non avrei potuto iscrivermi perchè straniero, poi scoprì che era possibile. Ricordo ancora bene il giorno dell’esame. La nomea della commissione era terribile. Un mio amico che dava l’esame lo stesso giorno fu bocciato nonostante sapesse leggere e scrivere la musica ed io che non sapevo fare né l'uno, ne l’altro, ero tutto sudato per il nervosismo. Quando entrai nell’aula senza strumenti tutti mi chiesero dove fosse la “fisarmonica”, io ribadì subito, estraendola dal taschino, che si trattava di armonica a bocca. Alla fine andò tutto bene, mi applaudirono molto e fui promosso. All’uscita dall’aula, la segretaria mi disse sorridendo che in vent'anni non aveva mai sentito applaudire nessuno alla SIAE.

SB: Il nome Forest è anche noto come attore per i film erotici girati al fianco di Serena Grandi con il regista Tinto Brass, ma noi vorremmo ricollegarci alla pellicola “La Casa Del Sortilegio” nella quale apri il film con orrendi e ricorrenti incubi. Quali sono gli incubi di Andy J.?

AJF: Non ho incubi ricorrenti. A volte mi sveglio per un brutto sogno. Nell’ultimo incubo che ho avuto mi trovavo in un bar e dovevo dire qualcosa a qualcuno ma le parole uscivano distorte e rallentate, non riuscivo ad esprimermi!!! Poi mi sono appoggiato al banco ma le mie mani hanno mancato la presa. Mi sembrava di precipitare in un baratro quando, ad un tratto, mi sono accorto di galleggiare nel vuoto, di volare… a quel punto l’incubo si è trasformato in un sogno.

A questo punto della nostra discussione, mentre la band stava finendo di riporre gli strumenti nell'auto, Heggy Vezzano grida al conducente, che si stava inavvertitamente muovendo, di bloccarsi. "Stavano per schiacciare qualcosa!" sussurra Andy J. "Una volta Roberto Ciotti, per fare così, ha preso sotto la sua stesa Dobro...".

SB: Con Roberto hai buoni rapporti?

AJF: Si, c’è molta stima e amicizia, spesso ci siamo ospitati nelle rispettive case; Roberto è una gran bella persona.

SB: Da quanti anni suoni?

AJF: All’incirca da quarant’anni anche se in modo professionale sono poco più di venticinque, in effetti dovrei suonare molto meglio (esclama ridendo). Il fatto è che un uomo deve sempre mettersi in discussione, come si dice: “il dente batte sempre dove la ligua...". (???)

SB: Un genere che ha fortemente influenzato il tuo stile è lo Zydeco, raccontaci come è nata la passione.

AJF: Avevo all’incirca diciotto anni quando mi capitò di ascoltare per la prima volta “Black Snake Blues” di Clifton Chenier e mi piacque moltissimo, peccato che non cominciai allora. Dovevo andare molto prima in Luisiana, infatti ho cominciato a suonarlo quando tornai a N.O. nel ’91. Ricordo che in quel periodo Jumping Johnny Sansone cominciò a suonare con la fisarmonica la musica della Luisiana ed anche io mi feci prendere la mano con il washboard che mi pare dalle tue parti (riferendosi al sud Italia), si chiama “Stricaturo” (“strofinatoio” ovvero tavola per lavare i panni. ndr). Oggi è una componente importante e non ne potrei fare a meno. Devo dire che a volte, su in Svizzera, suonavamo tutto il concerto con l’armonica e solo un paio di pezzi con il washboard. Il giorno dopo qualcuno mi fermava e mi chiedeva: “sei tu quello che suonava quel coso che faceva zizizi zizizi?”. Quando venni in Italia non c’era la cultura sulla musica della Luisiana e dello Zydeco; facevo ascoltare i dischi e mi dicevano che non erano precisi. Loro erano “One Trick Pony” (ndr: “One Trick Pony”, che letteralmente si traduce “strategia/trucco del pony”, era un termine che si usava per riferirsi ai piccoli circhi che avevano un numero limitato di animali come cani e, appunto, pony. In gergo musicale è riferito a musicisti che fanno poche cose e quindi limitati). Oggi per fortuna ci sono musicisti come Heggy che suonano di tutto, dal Blues allo Zydeco o al Mambo, diciamo che a me piace variare i ritmi, uno alla Bo Diddley, uno Zydeco, uno Chicago…

SB: Come lo vedi il Chicago Blues contemporaneo?

AJF: Sono stato a Chicago una sola volta ed ho suonato in un paio di locali, tra cui il famoso Kingston Mines, con il mio amico Micheal Coleman. Loro facevano “I Shot The Sheriff”, “Living In America”, ogni pezzo durava venti minuti per cui un set di 45’ era costituito da appena tre pezzi. L’ultimo era rigorosamente “Sweet Home Chicago” fatto alla Blues Brothers…

SB: Pensi che i Blues Brothers abbiano contribuito molto alla diffusione del blues di Chicago nel mondo?

AJF: Si, ma i Blues Brothers erano due comici, era come se in Italia Beppe Grillo facesse blues. Presero dei musicisti bravi; anche loro erano bravi però erano comici. Io credo che bisogna guardare in prospettiva la cosa: loro erano comici che hanno fatto successo ma non esiste per un musicista “i pezzi dei Blues Brothers”, loro non hanno mai fatto pezzi loro, facevano solo cover, andavano ogni sabato in TV al Saturday Night Live e per questo vendevano milioni di dischi. Di buono c’è che la gente cominciò a conoscere Sweet Home Chicago. Ricordo che a Bologna quando ci proponevamo ai locali e dicevamo di fare blues il gestore esclamava “Ah, Louis Armstrong!”

SB: e del blues di Ray Charles?

AJF: una volta Ray disse: “Non tutto il razzismo è bianco, non tutto il Soul è nero”

SB: Dal ’79 ad oggi, cosa è cambiato nello Spaghetti Blues?

AJF: è sicuramente molto migliorato, come dicevo prima a quei tempi era difficile trovare musicisti aperti a tutto il blues ed erano spesso legati alle forme più conosciute. A me piacciono tutti i blues ma non tutti i gruppi che fanno blues, tanto più che non mi piace il blues troppo duro, alla Gary Moore per esempio, però sono disposto ad ascoltare quelli che mescolano le contaminazioni con il Soul o il Funky: magari fanno poco blues ma sono bravi. Per me è più importante la qualità che il genere.

SB: Che cos’è per te il Blues?

AJF: Feeling! Ognuno interpreta il blues come vuole e se io provo qualcosa anche per un artista che suona Flamenco, per me ci può essere del blues dentro. L’altro giorno in autostrada ho preso un vecchio disco di Miles Davis e c’erano degli assoli di clarino o soprano: “Che Blues!” pensai, però lo chiamano Jaz… Chi se ne frega! Credo che l’importante sia essere sempre creativo e anche io nel mio piccolo cerco di esserlo, certo non farò mai musica elettronica. Spesso si pensa che il blues sia una musica ripetitiva e tutta uguale ma non è così, prendiamo ad esempio Muddy Waters, nessuno suonava così prima di lui, oggi per noi è un classico ma quando cominciò era una novità, egli rivoluzionò il blues. Se tu vuoi essere come i grandi non devi imitarli tecnicamente ma devi cogliere il senso della loro rivoluzionaria creatività individuale.

SB: Per finire, vuoi rivolgere un saluto ed un suggerimento agli “spaghettari”?

AJF: Ascoltate tutto e seguite il cuore perchè è tutto soggettivo, non c’è chi ha torto o ragione: questa è l’Arte. Ciao.



Discografia:

1979 - The List
1981 - Harmonica Man
1982 - Andy J Forest & Snapshots
1983 - Hog Wild
1984 - Affittato Blues (single)
1987 - Baby I'm Alone (single)
1987 - Cat On A Hot Tin Harp
1989 - Grooverockbluesfunkn'roll - Live
1989 - Shuffle City - Live at the Montreux Jazz Festival
1992 - N.O.LA.
1994 - Bluesness As Usual
1995 - Hogshead Cheese
1996 - Blue Orleans
1998 - Letter From Hell
1999 - Live at the Rainbow
2001 - Sunday Rhumba
2003 - Deep Down Under (In The Bywater)
2006 - Real Stories

 

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