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Donne di Blues: Veronica Sbergia  a cura di Lucia Braccioforte

Considerati tra i più eclettici artisti blues del panorama nazionale, Max De Bernardi e Veronica Sbergia si preparano ad attraversare in lungo e in largo, ancora una volta, a partire da Marzo fino a Maggio inoltrato, il Nord Europa: dal 9 al 19 marzo Veronica con i Delta Boys (duo tedesco di Blues acustico) scorazzeranno il loro blues in Germania; dal 27 al 30 con Aprile sarà ad esibirsi con Max presso il Shetland Folk Festival in Scozia, ma varia e diversificata sarà la loro presenza in tutta Europa (dettagli dei vari tour, date e luoghi si possono trovare sul loro sito). Veronica e Max sono tra i pochi artisti blues italiani ad aver conquistato il mercato europeo esibendosi in Francia, Ungheria, Inghilterra, Svizzera, Spagna, Croazia, Austria e negli Stati Uniti.
Degni prosecutori della tradizione americana che esplora il blues pre-war dei primi del 900, spaziano come si legge sulla loro biografia ufficiale, dal Ragtime al Country Blues di Hokum, allo Swing, al Vaudeville e la Jug band Music e a tutto quello che ruota intorno alla musica Roots d’oltreoceano. Il tutto suonato rigorosamente in ambiente acustico utilizzando strumenti che degnamente si prestano a tali rivisitazioni; oltre alla chitarra acustica il progetto vede l’utilizzo del mandolino, del banjo e dell'ukulele, quest’ultimo abilmente suonato da Veronica insieme agli strumenti della tradizione rurale blues, dal classico washboard al più irriverente kazoo, il tutto sapientemente armonizzato dalle voci.
Vincitori nel 2013 dell’European Blues Challenge hanno partecipato ad importanti Festival Internazionali come il Notodden Blues Festival, Lucerne Blues Festival, Cognac Blues Passion, The Big Wheel Festival on the Isle of Man (UK), Autumn in Blues in Poland, Primavera in Black a Barcellona, BluesBaltica a Eutin (DE), e molti altri. Sempre nel 2013 ricevono L’Oscar del Blues dalla Kayman Records, etichetta discografica italiana specializzata nel settore. Veronica si distingue oltre che per la versatilità della sua voce e la ricerca estetica e la cura con cui si rivolge al suo pubblico per aver conquistato il secondo posto nell’INTERNATIONAL BEST NEW ACT nel sondaggio lanciato dal trimestrale polacco sul blues e dintorni "Twój Blues" e per essere stata l’unica artista italiana a partecipare al prestigioso “Mustique Blues Festival” (Caraibi) ed. 2012 e 2013.
Fra i lavori discografici ricordiamo Veronica & The Red Wine Serenaders (2009) in collaborazione con Alessandra Ceccala al contrabbasso e Mauro Ferrarese alla chitarra resofonica; D.O.C. (2011) registrato in presa diretta presso la stazione di Ora; Old Stories for Modern Times (2012) che ha visto la partecipazione di ospiti importanti come il chitarrista Bob Brozman e l'armonicista Sugar Blue; e l’ultimo lavoro The Mexican Dress registrato in parte negli Stati Uniti presso i Pacific Studios di Tacoma e in parte in Italia presso gli Studi Suono Vivo di Dario Ravelli e che vede Veronica Sbergia cimentarsi anche quale autrice dei brani.


        


Intervista:

SB: La fine del 2016 e l’inizio del nuovo anno vi hanno visti protagonisti di una serie di tour condotti a livello Europeo. Cosa ti hanno lasciato dal punto di vista umano ed emozionale oltre che dal punto di vista artistico queste esperienze?

VS: Le prime esperienze musicali tentate fuori dall’Italia con “Veronica & The Red Wine Serenaders” risalgono a qualche anno fa; all’inizio ci siamo autogestiti, organizzando i tour avvalendoci anche della collaborazione dei nostri amici all'estero. L’obiettivo primario era quello di far conoscere la nostra musica, cercando di coprire le spese a livello economico e ottenendo un ritorno in termini pubblicitari. Il salto di qualità avviene con la partecipazione all’European Blues Challenge, nel 2013, a Tolosa. Per noi è stato un momento molto importante, proprio perché ci ha messo in diretto contatto con professionisti del settore, promoter, giornalisti e organizzatori di eventi. Aver conquistato il primo posto ci ha permesso di entrare in contatto con quello che, attualmente, è il nostro agente inglese e, da quel momento, per noi le cose sono cambiate radicalmente. Avere alle spalle un’agenzia importante, con un pacchetto di artisti di elevata qualità, rende più facile accedere a certi canali. Da oltre tre anni, quindi, abbiamo la possibilità di muoverci in questo circuito professionale: suonare in nord Europa è sempre una grande soddisfazione. Nonostante anche in questi Paesi si subisca il fascino dell’artista americano o comunque vi è sempre un po’ di esterofilia, abbiamo notato molta attenzione e curiosità verso quello che facciamo. Il prossimo tour ci porterà in Scozia e Regno Unito per oltre un mese! E questa è una grande soddisfazione per noi, oltre che un grande riconoscimento. All’estero abbiamo avuto veramente delle belle conferme, tanti apprezzamenti a cui diamo valore considerando che vengono da persone con una cultura musicale differente dalla nostra e che ci fanno capire che la scelta fatta qualche anno fa è giusta e che occorre continuare su questa strada.

SB: Questa l’esperienza del Nord Europa. Parlaci invece dell’esperienza che vi ha portato ad esibirvi a Memphis, una delle patrie del blues americano…

VS: Le due cose sono strettamente collegate: infatti abbiamo deciso di tentare la carta dell'International Blues Challenge dopo la vittoria a Tolosa. La visibilità che Tolosa ci ha dato ci ha consentito, non solo di farci incontrare delle persone interessanti che hanno incrementato il nostro volume di lavoro, ma ci ha permesso di rimetterci in gioco e osare la partecipazione ad un evento internazionale a Memphis. Nel bene e nel male è stata un'esperienza utile, anche se le logiche alla base sono profondamente diverse dal “fratello” europeo. Abbiamo raccolto ottimi consensi e toccato con mano cosa vuol dire fare parte della “macchina del business del Blues”. A tal proposito non mi sento di dare un feedback assolutamente positivo alla nostra esperienza, ma è un discorso troppo lungo da affrontare in un'intervista! Posso dire con un pizzico di orgoglio che in molti degli eventi ai quali abbiamo partecipato fuori Italia, siamo storicamente i primi artisti italiani ad esibirsi.

SB: Mi sembra di capire che sia importante per un musicista blues nazionale, anche a livello personale, confrontarsi con realtà internazionali, ma quanto è importante il confronto con altre culture musicali per costruire una propria diversa progettualità?

VS: Nel nostro Paese, e lo dico senza supponenza, è difficile essere un musicista professionista, più spesso il musicista è costretto a conciliare questa attività con un altro lavoro per cui si è spesso musicisti part-time. Questo crea serie difficoltà di progettazione in generale: come puoi programmare un tour di settimane all'estero se hai un altro lavoro? Personalmente io collaboro con Max De Bernardi da 10 anni ma sono una musicista professionista da 6 anni: come altri ho conciliato la mia passione per la musica e l'attività live con qualche altro lavoro, fino a quando ho sentito che c’erano i presupposti per poter lavorare seriamente come professionista. Allora ho rischiato del mio e ho deciso di dedicarmi alla musica al 100%. Quando ho fatto questa scelta avevo già chiaro che non volevo limitarmi all'Italia, volevo essere musicista a tutto tondo, come tutti gli altri musicisti fanno all’estero. Entrando più nello specifico della tua domanda, si, ritengo sia importante confrontarsi con gli artisti europei e internazionali, soprattutto perché se rimani solo nel tuo ambiente, ti senti rassicurato, protetto, ma non puoi riconoscere effettivamente il tuo valore. All’estero non sei più il fenomeno musicale locale o nazionale, non ti conosce nessuno, devi lavorare sodo e in qualità per essere apprezzato. Oltre al fatto che si impara molto viaggiando e suonando con altri musicisti, condividendo altre esperienze. Se si vuole diventare musicisti professionisti al 100% occorre slegarsi dal contesto nazionale: è importante rivolgere lo sguardo all’esterno. Il fatto che cantiamo in lingua inglese è un punto a nostro favore in quanto, potenzialmente, possiamo esibirci dovunque al pari dei musicisti americani.

SB: In Italia quindi, da quello che mi dici, fare il musicista significa o praticare un hobby o vivere la musica come seconda professione, soprattutto in un ambiente musicale di nicchia come quello del blues. Approfondendo la questione, perche si produce questo fenomeno, cioè perché non si riesce a vivere la musica da professionisti e a tempo pieno: è una questione di attitudine personale (ovvero una scarsa propensione al rischio e ad investire a tempo pieno nel “mestiere”) o realmente non ci sono le condizioni perche si possa fare musica a livello professionale?

VS: Penso, sinceramente, che siano vere entrambe le affermazioni. Al riguardo si può fare un ragionamento generale oppure entrare nel caso specifico. Da un lato ritengo ci sia scarsa propensione al rischio da parte dei musicisti; d’altra parte, se ci sono delle necessità per cui avere un introito fisso mensile deve essere garantito (famiglia, figli, mutui, impegni vari) in un paese come il nostro dove la musica non è considerata come professione, questa scelta diventa non tanto rischiosa ma assolutamente non praticabile. Se decidi di “buttarti nella mischia” non basta saper suonare, occorre avere anche buone capacità organizzative per gestire bene il proprio businnes, saper comunicare con la gente, rispondere alle richieste in tempi stretti, garantire professionalità e soprattutto saper generare un interesse da parte della gente che vuol venire a vederti. Ci sono tanti fattori che entrano in gioco: potenzialmente le condizioni ci sono, per tutti; bisogna impegnarsi a capire qual'è personalmente il proprio obiettivo, fare autocritica e capire se si è in grado poi di vivere solo di concerti e lezioni e seminari. In Italia ci sono persone che hanno fatto una scelta di questo tipo seppur con famiglia a carico, si spaccano il culo, però ce la fanno! Ci vuole determinazione in una scelta del genere, e ricordiamoci che, alla fine della fiera, è sempre il pubblico che decide!

SB: L’esperienza mi dice che la maggior parte della musica blues in Italia è autoprodottta. Questo accade perchè i musicisti si considerano un fenomeno di nicchia e vogliono mantenere una loro indipendenza artistica o sono le case discografiche, anche quelle indipendenti, che magari non favoriscono questo genere di musica? Si investe poco in questo genere musicale? E se fosse questa la risposta, perché il blues non fa mercato?

VS: In ogni ambito musicale e non solo nel blues, stiamo sperimentando una drammatica crisi del mercato discografico, i dischi non si vendono più già di per se. Se poi si considera che, a livello discografico, tutto quello che viene prodotto in Italia attualmente è legato ad un talent, possiamo già metterci il cuore in pace... non ce la faremo mai a vedere una produzione alternativa conquistare i grandi numeri del mercato. Viviamo in un paese dove la televisione è un mezzo di propaganda importantissimo, non esistono più i produttori discografici e tutto è affidato alla logica del profitto fine a se stesso. Ma che fine fa la qualità? L'originalità di un artista?
Produrre un disco e di conseguenza un artista significa quindi assicurarsi di avere già una buona promozione alle spalle. Questo meccanismo rende difficile che si possa avere una casa discografica che decida di promuovere un prodotto musicale alternativo. Personalmente, quando ho iniziato ad avere desiderio di stampare dei dischi ho fatto la scelta di autoprodurlo perché ero consapevole che non avrei mai trovato nessuno che fosse interessato a produrmi un disco come lo volevo fare io.
Stesso discorso vale per le etichette indipendenti. ll blues non genera soldi? Sei fuori dal mercato! Si deve poi fare un discorso legato ai media (radio e giornali, oltre alla TV) che hanno una responsabilità determinante nella formazione del gusto musicale.
Come possiamo sperare di avere un'audience educata all'ascolto di Robert Johnson o di Sister Rosetta Tharp? O anche di artisti attuali? Certo, ci sono le piccole radio web e le testate giornalistiche dedicate che si rivolgono tuttavia a chi è già amante del genere. Il risultato è una mancanza di ricambio generazionale nel pubblico, una stagnazione senza possibilità di cambiamento. In mancanza di un pubblico educato all’ascolto non riusciremo mai a cambiare questa situazione.

SB: Abbiamo prima un po’ accennato ai tuoi lavori discografici! Ora io parto dal presupposto che l’ultimo progetto pubblicato, perché di questo spesso si tratta, data la complessità che si cela dietro ad ogni lavoro, sia sempre più bello ed ispirato del precedente forse perchè intriso della maturità musicale ed artistica acquisita nel tempo. Ed essendo tu autrice di questi brani cosa hai voluto esprimere e raccontare con questo lavoro? In sostanza vorrei capire come nasce e come si esprime il processo creativo che c’è dietro all’attività di costruzione del disco.

VS: Ti ringrazio per le tue domande interessanti e affatto banali e grazie anche perché mi dai la possibilità di entrare un po’ nel profondo di quello che è il nostro lavoro. Inizio a rispondere alla prima domanda, relativa quindi all’ultimo disco che abbiamo stampato, "The Mexican Dress" (indip., distr. Audioglobe, registrato in parte negli Stati Uniti presso i Pacific Studios di Tacoma, Seattle da Mark Simmons, e in parte in Italia presso gli studi SuonoVivo, da Dario Ravelli). Quando abbiamo iniziato a sviluppare l’idea di questo disco, volevamo distaccarci dai precedenti lavori in studio. Venivamo dall’esperienza del precedente lavoro “Old Stories for Modern Times”, dove avevamo anche coinvolto molti musicisti e due ospiti speciali come Sugar Blue e Bob Brozman. La gestazione si era protratta a lungo e in un certo senso, scaglionando troppo le sessioni di registrazione, abbiamo perso un po' dell'immediatezza e spontaneità che ci contraddistingue quando lavoriamo ad un disco.
Per
"The Mexican Dress" abbiamo lavorato in tempi stretti, con pochi musicisti ad arricchire la parte musicale di base prodotta dal nostro trio (io, Max e Dario Polerani al contrabbasso) e, per la prima volta, inserendo pezzi originali, scritti da me e Max e dai nostri amici americani, veterani della scena acustica negli anni 70. Metà del disco è stato registrato negli Stati Uniti, anche nell’ottica di cui si parlava prima, dell’importanza di confrontarsi con musicisti stranieri. E’ stata l’occasione per fare un’esperienza di lavoro in studio in un paese come gli Stati Uniti, eccellenza a livello discografico e di lavoro con dei grandi professionisti. Si lavorava dieci ore al giorno, curando ogni dettaglio, come la corretta pronuncia, cosa a cui in Italia diamo ancora poco peso. Tutte le piccole sfumature sono importanti e da questo punto di vista è stata un’esperienza spettacolare che ci ha fatto crescere molto. Parlando di processo creativo, personalmente mi viene molto facile esprimermi nel canto, il mio strumento primario, mentre scrivere un tuo pezzo è invece vivere una sorta di tormento, creare qualcosa da zero è un processo creativo molto diverso da quello di prendere una cosa già fatta e interpretarla secondo la tua esperienza. Questo processo creativo, se sviluppato insieme ad altre persone, può portare ad una crescita artistica incredibile, con Max ci siamo spesso trovati a confrontarci a discutere di come doveva essere un passaggio, un giro armonico, una frase o un concetto che volevamo esprimere. Ci vuole una buona dose di pazienza e capacità di addattamento.

SB: Quindi mi viene da pensare, ascoltandoti, più che a un processo a una sorta di atto creativo, perché l’atto è sempre comunicativo comunque…

VS: Si io lo vedo ancora come qualcosa di abbastanza irrazionale e non l’ho strutturato assolutamente, anzi mi piacerebbe imparare a strutturare questa capacità creativa in un processo, perché in tal modo sarebbe una cosa replicabile: in un processo impari a organizzare il lavoro in varie fasi e man mano prendi dimestichezza delle cose da fare senza un eccessivo coinvolgimento emotivo.

SB: In sostanza tu appartieni alla categoria degli artisti che creano per istinto e non seguendo un processo strutturato..

VS: Mi piacerebbe imparare a razionalizzare il “processo di creazione”, perché sicuramente ti rende capace nel tempo di saperlo gestire! I propositi per il prossimo lavoro sono quelli di lavorare con maggiore razionalità, e mi piace l’idea che oltre ad amare uno stile musicale possiamo riuscire a creare il nostro suono, una nostra specifica sonorità che era quello che ci eravamo ripromessi quando abbiamo ideato "The Mexican Dress", per dare una riconoscibilità al nostro suono. Ecco l’obiettivo cui tendere potrebbe essere proprio la creazione di una sonorità che ci identifichi.

SB: Ti reputo alfiere di un blues raffinato, intelligente ed elegante che è quello che emerge dalle performance sul palco. La cura dell’immagine, il grande appeal che emanate dal palco, il tipo di comunicazione adottata, è frutto di un lavoro di costruzione o fa parte del processo naturale di evoluzione che ha accompagnato la tua musica? Ma soprattutto c’è una ispirazione estetica dietro a questo modo di proporvi? Io, personalmente, ci vedo una sorta di ricerca e di studio..

VS: La risposta è si! Più che una ricerca è un’attenzione anche a questo aspetto. E’ fondamentale il modo in cui un artista si propone, il modo in cui si presenta sul palcoscenico. Io rispetto chi decide di presentarsi sul palco “così com’è” ma alla fine penso che sia rispettoso verso il pubblico che viene ad ascoltarci e vederci. La personalità si esprime anche nel modo in cui una persona si veste. Con questo non voglio delegare tutto all'immagine, ovviamente, penso solo che sia un tocco in più. Io ho un immaginario estetico che si rifà al passato, quando chi si presentava davanti ad una telecamera o su un palcoscenico si vestiva elegantemente, si indossavano gli abiti migliori che si avevano. Parlo delle cantanti, delle grandi voci come Ella Fitzgerald o Billie Holiday e guardando ancora piu indietro a ritroso le blues woman come Bessie Smith, Ma Raney, Memphis Minnie; percepivano il fatto di salire su un palco come “vado a fare il mio lavoro e mi metto la mia divisa da lavoro” che è l’espressione della tua personalità, di quello che ami e di come sei. E poi io lo faccio perché mi diverte vestirmi in un certo modo, dedicare del tempo ad acconciarmi i capelli, truccarmi, mettermi un fiore, una scarpa particolare... fa parte un po' del mio essere donna e contribuisce a stuzzicare l’attenzione delle persone.

SB: Questa è una domanda un po’ più personale. Si dice che il blues sia la musica del diavolo, ma che non gli appartenga, ipotesi questa suggestiva; o, al contrario, si ritiene che sia musica per guarire l’anima delle persone. Vorrei sapere, se tu sei d’accordo con la prima ipotesi, quali stati emotivi, quali diavoli riesce a tirare fuori da te il blues? Se pensi invece che sia vera la seconda ipotesi, da quali mali ti ha guarita? Il blues è stato la tua medicina, la cura che è riuscita a tirare fuori quell’ombra, che tutti noi abbiamo, a buttarla via, a nasconderla?

VS: Se mi permetti correggo un po quello che dici perché, non è tanto il genere musicale che amo profondamente, ma la musica come concezione nella mia vita, che ha avuto questa valenza. Mi sono trovata a interpretare diversi generi musicali nell'arco della mia vita e quello che ho sentito più vicino alle mie corde era ed è il blues e in generale la musica nera. Ho iniziato a studiare musica all'età di 9 anni e ho proseguito fino ai 20 anni; quando ho iniziato a cantare blues ho capito che dovevo mettere da parte le regole ed privilegiare l'espressione personale, imparare a tirare fuori quello che c’è dentro di te, lasciarlo il più possibile libero di fluire, senza imbrigliarlo dentro a troppi tecnicismi. Nell’arco degli anni ho cambiato radicalmente il mio modo di cantare, a fare meno caso a alcuni perfezionismi che prima consideravo importanti. Grazie a questa “riprogrammazione” vocale e mentale ho più facilità di esprimere me stessa quando canto, sono più libera di fare quello che voglio, e questa cosa mi da inoltre la possibilità di “curarmi” quando c’è qualcosa che non va dentro di me perché la musica mi ha sempre aiutata, è sempre stata la mia compagna più vicina. La musica in alcuni casi può essere una cura e in altri casi può essere malattia, perché ne hai fisicamente bisogno. Io vivo dei momenti in cui mi manca cantare, ho bisogno di cantare, ho bisogno di buttare fuori delle cose. E’ un po’ una valvola di sfogo. E' un rapporto ambivalente, quello con la musica: la necessitiamo e la sfruttiamo allo stesso tempo.

SB: In un libro che è una delle Bibbie del Blues ("La terra del Blues" di Alan Lomax) si legge la seguente frase: “il blues è un territorio quasi esclusivamente maschile” e ancora ”nel delta una donna rispettabile non avrebbe mai cantato il blues neppure in privato”. Ti chiedo: c'è stato un cambiamento nel percorso storico del blues in questo o pensi che il blues sia ancora appannaggio e retaggio esclusivo dell’universo maschile? Ovvero ritieni ci sia discriminazione nel mondo del blues tra uomini e donne?

VS: E' innegabile che il mondo musicale sia sempre stato territorio maschile e non solo nel blues. Pensiamo però che sono state le grandi cantanti blues le responsabili di aver reso popolare questa musica. C’è poca considerazione per le donne; in generale le donne sono poi tendenzialmente viste come “la cantante” quasi sempre associata ad una persona ignorante musicalmente o scarsamente preparata, purtroppo questa è l’idea media del musicista. Anche per questo devo ringraziare Max che mi ha spinto a suonare. Ovviamente non fanno parte di questa categoria artiste eccezionali dove la voce fa tutto. Però devi essere l’eccezione, sei Ella, sei Billie, sei Sarah, sei qualcosa di veramente straordinario. Devo dire che ultimamente vedo sempre più musiciste donne che si propongono con strumenti, sembra che ci sia una piccola inversione di tendenza, per cui ci sono sempre più donne che imbracciano uno strumento, che suonano e cantano. Personalmente amo vedere una donna che suona, non mi interessa che sia virtuosa sullo strumento, ma che si esprima con sincerità, con una chitarra, un ukulele, un pianoforte, e con le sue insicurezze, mi fa vedere che c’è dietro la voglia di esprimersi al 100%.

SB: E, continuando sul tema, cosa ci dici del rapporto con le colleghe musiciste donne: c'è antagonismo, rivalità o spirito di collaborazione?

VS: Per come sono fatta io, ho ottimi rapporti con le altre colleghe donne, rispetto il loro lavoro e la loro professionalità, ho imparato a non giudicare perché ognuno ha il proprio modo di esprimersi artisticamente, anche nel caso in cui ci siano aspetti che non corrispondono al mio gusto. Per questo ho sempre, finora, ricevuto attestazioni di stima dalle mie colleghe ed il tutto è reciproco, spero al di fuori della falsità.

SB: Nella vita di tutti i giorni, com’è la tua relazione con la musica blues? Come entra il blues nel tuo quotidiano?

VS: Tanta tanta musica... non sempre ascolto il blues anzi posso dire che lo faccio soprattutto per esigenze di lavoro, quando devo ricercare un brano nuovo da proporre o mi interessa la conoscenza più approfondita di un artista. In generale il mio rapporto con il blues è molto libero: mi ritrovo quasi quotidianamente a cantare, a pensare a quello che canto o che faccio e a fare un parallelo tra il blues e tutto quello che vivo quotidianamente… E come se il blues fosse geneticamente contenuto nelle mie cellule, sono talmente abituata ad averci a che fare che quasi lo vivo inconsapevolmente. So che c’è e ogni tanto lo tiro fuori… E’ nel DNA, è dentro...



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